Musica

I Placebo a Milano: report del concerto del 27 ottobre

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Dieci minuti prima delle 21, i maxischermi appesi sul palco si accendono e proiettano questo messaggio: «Vi chiediamo gentilmente di non trascorrere tutto il tempo a riprendere il concerto… Siate qui e ora nel presente, godetevi il momento. Perché non accadrà di nuovo».

Quando gli schermi si sollevano e scoprono il palco, Brian Molko e Stefan Olsdal appaiono acclamati come dark gods scomparsi dalle scene per troppo tempo. Nel pubblico, i fedeli si sgolano per accogliere i loro idoli sulle note di “Forever Chemicals”. Continuano con “Beautiful James”, poi “Scene of the Crime” fa da spartiacque tra il nuovo e il vecchio.

I Placebo propongono, infatti, quasi tutto il nuovo album Never Let Me Go. Dopo “Hugz” e “Happy Birthday in the Sky”, c’è di nuovo una pausa dal presente con “Bionic”, per riprendere la carrellata con “Twin Demons”, “Surrounded by Spies”, “Chemtrails”, “Sad White Reggae” e “Try Better Next Time” tutte in una volta sola.

Ci troviamo di fronte a una scelta ragionata

Molko e Olsdal non rimpiangono il passato, non cercano indietro le risposte per il futuro, ma sono ben ancorati al presente. Non suonano le canzoni che li hanno resi più noti, a parte una, che in fondo non è neppure loro. Quindi niente “Pure Morning”, “Meds”, “Every You Every Me”, “Special Needs”, “Special K”. È una scelta che forse ha fatto arrabbiare qualcuno, magari chi era lì soltanto per rievocare il glorioso passato. Eppure l’eventualità di turbare qualche animo non sembra impensierire i Placebo, chiaramente fieri e determinati a portare avanti i loro ideali.

Per tutto il concerto, infatti, la sicurezza si occupa di redarguire chi ha il telefono in mano. Molko, inoltre, non interagisce per tutta l’ora e mezza, lasciando a Olsdal il compito di salutare e ringraziare il pubblico. Lo scopo, forse, è quello di creare una connessione più profonda con i fan, soltanto attraverso la musica. E ci sono pienamente riusciti.

Da ora in poi il vecchio prende il sopravvento sul nuovo

C’è giusto qualche contaminazione (“Went Missing”, la cover “Shout” e “Fix Yourself”). Con “Too Many Friends” s’incendia lo stadio: Olsdal si siede al piano e regala un’atmosfera magica. Il pubblico restituisce le parole della canzone in un’eco roboante e armoniosa. Sugli spalti cominciamo ad alzarci, pronti a ballare sulle note di “For What It’s Worth”, “Slave to the Wage”, “Song to Say Goodbye”, “The Bitter End” e “Infra-red”.

Tutto ciò è sostenuto da un allestimento scenico spettacolare

I maxischermi continuano a sportarsi su e giù, a offrire immagini deformate in diretta della band o di scene che vogliono rafforzare i temi degli ultimi testi, come la critica al capitalismo, al controllo sociale e l’invito ad aprire gli occhi davanti al disastro ambientale.

Lo show si chiude con una lunga ed emozionante versione della famosissima “Running Up That Hill”, cover di Kate Bush. Il pubblico si scatena, si lascia cullare dalla voce particolare e melodiosa di Molko, che dal vivo non perde sfumature, anzi è più potente che in studio. Olsdal lo sostiene con i cori e la sua versatilità, passando per vari strumenti nel corso delle esibizioni.

Il suono che esce dalle casse è pieno, abrasivo

Per un’ora e mezza, le mie orecchie hanno rischiato di scoppiare, eppure non è stata una sensazione spiacevole. Perché il suono raggiungeva tutto, non solo le orecchie, non solo l’udito. Riempiva ogni senso, ogni osso e muscolo, si infilava in ogni terminazione nervosa disposta ad accoglierlo e la arricchiva. È stato lo stesso per tutti i presenti, non c’è dubbio. Forse perché abbiamo scelto di vivere qui e ora, di dimenticare i telefoni e con essi l’autocelebrazione, la smania di condividere online ogni istante della nostra vita. Forse perché, per una sera, ci siamo concentrati solo sul momento che stavamo vivendo, ma non credo siano gli unici motivi.

— Onda Musicale

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