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Sir Lord Baltimore, i nobili inventori dell’heavy metal

Sir Lord Baltimore, la cover del disco

Diciamo la verità, sentendo il nome Sir Lord Baltimore a nessuno verrebbe in mente una delle band di rock più rocciose della storia. Eppure, il moniker è quello adottato da un complesso attivo per qualche anno agli albori del rock come lo conosciamo.

Già, dici Sir Lord Baltimore e ti viene in mente un qualche nobilotto vittoriano, col cilindro, il bastone e magari diretto a uno dei soliti balli, sulla sua carrozza di lusso. E invece, i Sir Lord Baltimore per qualcuno sono il complesso che ha inventato l’heavy metal. Un po’ grossa, sparata così, anche perché la musica del terzetto newyorchese suona più come un prototipo di certo stoner rock, che non dell’heavy vero e proprio.

I padrini dello stoner, così qualcuno li chiama ancora oggi, dopo che la band è definitivamente defunta assieme a John Garner, la sua voce e anima, nel 2015. John ci aveva provato, a resuscitare i Sir Lord Baltimore dopo il breve fulgore tra il 1968 e il 1976. E resuscitato è la parola giusta, tanto che il cantante e batterista aveva fatto rinascere la band implementando la formula con sentori cristiani, religione di cui era diventato fervente seguace.

La storia dei Sir Lord Baltimore, quella vera, affonda però le radici alla fine degli anni Sessanta. La scena americana, dopo aver dato i natali al primo rock’n’roll, quello di Elvis che fondeva blues nero e country bianco, è in difficoltà. In America forse non se ne rendono nemmeno bene conto, sempre convinti che qualsiasi tendenza parta dalla loro nazione, ma è il tempo della British Invasion.

La Swingin’ London detta le mode e il mondo segue.
Dal Beat al Blues Revival, fino al nascente hard rock, la terra d’Albione non ne sbaglia una. Negli Stati Uniti non si può far altro che copiare, anche se le comuni dei figli dei fiori e le grandi disponibilità di denari finiscono per attirare comunque i musicisti europei. E così per i Cream, i Rolling Stones, i Led Zeppelin e tanti altri, gli Usa sono terra di conquista.

Gli americani tornano sulla cresta dell’onda coi festival, da Monterey a Woodstock, i grandi locali come il Fillmore e il rock psichedelico. A ovest è un gran proliferare delle band della Summer of Love: Grateful Dead, Jefferson Airplane, Crosby, Stills, Nash & Young. Sulla costa est, quella più europea e all’avanguardia, nascono fenomeni più cerebrali come i Velvet Underground.

E proprio a New York si incontrano al liceo John Garner, Louis Dambra e Gary Justin.
John suona la batteria e possiede una voce selvaggia; Dambra è un chitarrista di solida tecnica e appassionato di distorsioni e suoni pesanti; ha già suonato in una band chiamata Koala. Justin, appassionato dei Cream e in particolare di Jack Bruce, suona il basso. I tre iniziano a provare nel 1968 e da allora – come costume ai tempi – le cose prendono un veloce abbrivio.

Il trio ottiene un’audizione con Mike Appel, futuro scopritore di Bruce Springsteen ma già all’epoca abbastanza influente; Mike suggerisce come nome Sir Lord Baltimore, non perché sia un’amante della nobiltà inglese, ma perché lo ha sentito in Butch Cassidy & Sundance Kid. Sir Lord Baltimore è un personaggio minore, un nativo americano scherzosamente chiamato così.

Il lavoro di debutto vede l’ampia collaborazione di Appel, che collabora ai testi, produce e fa da mentore ai tre ragazzi. Kingdom Come, così è intitolato il disco, viene registrato per la Mercury ai Vantone Studios, nel New Jersey, per poi essere mixato agli Electric Lady da Eddie Kramer. Sono gli studi e il tecnico del suono di Jimi Hendrix, e ciò contribuisce all’aura mitologica del lavoro. Non solo, secondo una diceria piuttosto fondata, i Pink Floyd li vedono lavorare in studio e rimangono molto colpiti dal loro sound granitico e dal grande uso delle distorsioni.

Ma Kingdom Come è davvero un disco così rivoluzionario?
La risposta non può che celarsi tra i solchi del vinile, uscito nel dicembre del 1970 con una copertina dall’iconografia prettamente horror che ritrae una sorta di vascello fantasma.

Il disco originale si apre con Master Heartache.
Il suono è effettivamente robusto in modo impressionante, anche se ben lontano dagli stilemi del futuro heavy. Siamo più dalle parti di un vigoroso hard rock, anche se un certo sentore della lezione dei Cream è presente. La voce di Garner è possente e istrionica, perdendosi talvolta in un bizzarro falsetto.

La chitarra di Dambra è onnipresente, fin troppo, e spesso doppia il cantato di Garner con un effetto hendrixiano. Il brano, va detto, non è felicissimo a livello compositivo.

Hard Rain Fallin’ è più agile e si apre con basso e batteria in primo piano. L’ingresso della chitarra dà un tono da rock’n’roll schizoide e distorto. Anche la voce di Garner è pesantemente filtrata, mentre Dambra ha modo nei tre minuti scarsi di ritagliarsi un bello spazio solista. La sensazione è di trovarsi di fronte a una versione in anticipo di oltre trent’anni della Jon Spencer Blues Explosion.

Lady of Fire si apre con un riff chitarristico da manuale ed offre ancora una prestazione quasi cabarettistica di Garner. La chitarra di Dambra pare aggrovigliarsi tra Woman From Tokyo dei Deep Purple – ma questo pezzo è ben precedente – e passaggi pirotecnici ai limiti del jazz. Di certo la misura non pare essere il pezzo forte degli americani, perennemente sopra le righe.

Lake Isle Of Innersfree segna – finalmente – la prima frenata.
Il canto di John Garner, quasi irriconoscibile, è accompagnato dal lavoro della chitarra acustica e filtrato da una serie di effetti eco. L’atmosfera è quella di una psichedelia folk rarefatta, a tratti quasi medievale. Un pezzo straniante ma riuscito, che fa capire come i Sir Lord Baltimore sappiano fare anche altro che non sia pestare sull’acceleratore.

Con Pumped Up siamo già alla fine della prima facciata e i ragazzi tornano a una poderosa cavalcata rock. Tra riff, cambi di ritmo, urla dissennate e la solita chitarra super distorta, il pezzo è un vero tour de force. Louis Dambra dà fondo al repertorio dei trucchi, ma si ha l’impressione che non sempre dietro i fraseggi velocissimi si celi grande sostanza.

Giriamo il vinile e la seconda facciata si apre con due sonori colpi da KO, tanto che non si capisce perché l’ordine della tracklist non sia stato invertito. Sarebbe stato un attacco formidabile, ed è così nella riedizione del 2007.

Kingdom Come, il brano che dà il titolo alla raccolta, è fenomenale. All’epoca, forse, mai si era sentito qualcosa di altrettanto pesante e lugubre, tolti i coevi Black Sabbath. La chitarra snocciola un riff dopo l’altro, vero granito distorto, mentre la voce di Garner è cavernosa e suggestiva nell’uso del falsetto.

Il tempo di un paio di ritornelli e arriva anche un assolo killer di Dambra; la chitarra è ficcante e la musica punteggiata da un riff che sta benissimo tra i migliori del rock. Insomma, Kingdom Come è un capolavoro, un gioiello che emerge dalle brume del tempo e ci pone un interrogativo: perché questi Sir Lord Baltimore non sono osannati come Led Zeppelin e Black Sabbath? Non si sa, sono i misteri della storia del rock.

I Got a Woman prosegue sulla stessa linea, dando vita a un uno-due da leggenda. Siamo più nel campo di un pesantissimo hard blues, ma il risultato è ancora straordinario. La voce di Garner pare lì lì per distruggere l’amplificazione e basso e chitarra lavorano all’unisono, distorti al punto giusto.

Hell Hound propone un riff di chitarra hendrixiano e cambi di ritmo sorprendenti. Garner sembra indemoniato e il pezzo scorre sul velluto, con la chitarra che doppia la parte vocale e il falsetto di John che fa faville. Helium Head (I Got A Love) è forse il brano che più di tutti si avvicina all’heavy metal, tanto da potersi definire un vero precursore del genere. La ritmica viaggia a velocità supersoniche e la chitarra che passa da un canale all’altro fa il resto.

L’album di debutto dei Sir Lord Baltimore si chiude trionfalmente con Ain’t Got Hung On You, brano velocissimo che non aggiunge nulla di particolare a un debutto irripetibile.

Il disco ottiene un discreto riconoscimento, anche se lo status di cult arriverà anni dopo. Il suono, infatti, così duro e distorto, farà proseliti ma all’epoca suona nuovo e quasi bizzarro, forse fin troppo avanti sui tempi.

Nel maggio del 1971, Mike Saunders scrive per Creem una recensione molto positiva di Kingdom Come. Il pezzo diventa mitico però per l’affermazione di Saunders. Mike scrive: “… i Sir Lord Baltimore sembra abbiano messo giù tutti i migliori trucchi del libro dell’heavy metal”.

Per molti è la prima volta che il termine è riferito a un genere musicale. In realtà lo stesso giornalista aveva già usato il termine recensendo l’album Humble Pie sulla rivista Rolling Stone sei mesi prima.

I Sir Lord Baltimore per un po’ folleggiano suonando al Fillmore East, dove aprono per i Black Sabbath, poi ci provano con un secondo album che cambia le carte in tavola. Il disco, eponimo, vede l’ingresso di Joey Dambra e propone un sound molto diverso, più strutturato e con passaggi ai limiti di uno space rock psichedelico. Il cambiamento, però, non assicura il successo sperato.

Le vendite sono scarse, l’uso di droghe – di converso – vertiginoso; la Mercury li abbandona e il terzo album, ormai quasi pronto, non vedrà mai la luce. O meglio, non fino alla reunion del 2006 quando, rivisto in chiave cristiana, il materiale esce in Sir Lord Baltimora III Raw.

La nuova avventura è però solo un’appendice alla gloriosa storia dei Sir Lord Baltimore, la band che per molti ha inventato l’heavy metal. Come sempre, la realtà è più complessa; quello che però è sotto gli occhi di tutti è il valore di una band finita precipitosamente stritolata dagli ingranaggi della storia del rock.

— Onda Musicale

Tags: Led Zeppelin, Black Sabbath, Bruce Springsteen
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