Musica

Eddie Vedder: dopo il dolore il riscatto e i Pearl Jam

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Una casa a San Diego. Fine anni Settanta, due genitori divorziano. La madre decide di tornare a Evanston, a pochi chilometri da Chicago, e di portare con sé i propri figli.

Uno di loro, però, si rifiuta. Vuole rimanere col padre, anche se i rapporti non sono dei migliori. Le sue amicizie, il suo ambiente, però, sono lì oramai, a San Diego. C’è qualcosa che non va, i rapporti si incrinano sempre più, fin quando Edward non scopre la verità: Peter non è suo padre, bensì suo patrigno; il genitore biologico, di cui porta il nome, è morto da qualche anno a causa della sclerosi multipla.

Una stanza d’ospedale a Seattle. Fine anni Ottanta. Aghi, flebo, macchine che tengono in vita un corpo già ormai esanime. Andrew è incosciente, è su quel letto col cuore ancora (vagamente) pulsante giusto il tempo per permettere ai suoi amici di porgergli l’estremo saluto. Un eccesso di troppo per quietare un animo sin troppo fragile è stato questa volta fatale. Chris, suo compagno di stanza, è devastato, i suoi amici nonché membri della sua band Mother Love Bone, Stone e Jeff, rimarranno letteralmente shockati da tutto ciò.

Un talento che ancora avrebbe tanto da dare al mondo della musica, ridotto in quello stato. Nascerà qualche mese dopo il progetto Temple Of The Dog, in cui i suoi più cari amici, Chris in primis, gli renderanno omaggio a loro modo, ovvero suonando, componendo, cantando, realizzando musica, come piace a loro, come piace(va) ad Andy.

In quei mesi anche Gossard ricomincia a scrivere musica, soprattutto come sfogo e rifugio per il dolore causato dalla atroce perdita dell’amico. In quelle settimane stringe amicizia con Mike McCready, chitarrista di grande talento e con cui di tanto in tanto aveva già scambiato qualche parola e qualche birra un po’ durante le serate degli Shadow, un po’prima e dopo le esibizioni dei Green River e dei Mother Love Bone. Compongono, strimpellano, fanno qualche jam.

Si divertono, c’è sintonia. Soprattutto, riescono a trovare una egregia valvola di sfogo per le frustrazioni e i dolori recenti e meno recenti. Mike sa che Stone e Amnett hanno perso un po’ i contatti dopo quel che è successo ad Andy, ma riesce a convincerlo che chiamare Jeff per metter su una nuova band non sarebbe un’idea malvagia, anzi.

Il duo si trasforma in trio. Il batterista va e viene, si vedrà. Quello che manca davvero è invece un cantante, uno che possa tirar fuori le parole dalle note, uno che possa dar voce alla musica. Un batterista va, un batterista viene, si chiama Jack Irons, saluta i ragazzi, augura il meglio per loro. Stone, Mike e Jeff gli consegnano una musicassetta con alcune demo registrate da loro, sperando che accetti di diventare il loro batterista stabile (leggasi “almeno per qualche prova e qualche concerto”).

Non ci pensa nemmeno: è fuggito dai Red Hot Chili Peppers da poco a causa di una situazione del tutto simile a quella vissuta dai tre ragazzi gentili con cui sta parlando, in più ha assaggiato cosa significa essere on the road a certi livelli. Non ha la benché minima intenzione di ripetere una vita simile, non per ora, almeno. Ma quei ragazzi gentili hanno negli occhi un oceano di speranze, sogni che troppe volte sono naufragati ma che strenuamente tornano a galla per cercare disperatamente i lidi di realtà.

Come fai a dirgli di no? Jack dice di no, aggiungendo un “…ma conosco un ragazzo, ogni tanto giochiamo a basket insieme. Secondo me potrebbe essere interessato”. Non è un batterista, ma una gran voce, dice.

Qualche giorno dopo, a San Diego, Eddie riceve un pacco postale. L’indirizzo è quello di Jack Irons. All’interno un foglio con poche spiegazioni e una musicassetta. Alla stazione di benzina non c’è tutto questo gran movimento, così il giovane Vedder (nel frattempo ha cambiato all’anagrafe il cognome del patrigno con quello da nubile della madre) prende il walkman, cuffie, tasto play. Ascolto. Riavvolgimento. Ascolto. Prende un bloc notes, scrive al volo, scrive, scrive, scrive.

Ha già scritto per la sua band di San Diego, i Bad Radio, ma qualcosa ora è diverso, qualcosa in quelle note lo spinge a gettare getti d’inchiostro così spontanei, sinceri, profondamente importanti per lui. Riesce a descrivere su tre basi strumentali diverse quelle che sono state le sue vicende personali della gioventù e che ancora vive, ancora porta addosso. Mai accaduto.

Nuovo pacco postale, stessa cassetta, il mittente precedente diviene destinatario. Jeff, Stone e Mike ascoltano. Non dicono nulla, prendono solo il telefono, digitano il numero scritto sopra l’etichetta della cassetta. Alcuni squilli.

“Pronto, Eddie Vedder?”
“Si?”
“Ciao, siamo quelli che ti hanno mandato il demotape. Ti va di raggiungerci alla nostra sala prove a Seattle?”
“Uh, beh… Non saprei… D’accordo”.

(fonte www.inmediarex.it – di Andrea Mariano)

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— Onda Musicale

Tags: Pearl Jam/Red Hot Chili Peppers/Eddie Vedder/San Diego
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