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“Low”: il basso profilo di David Bowie

IL CIELO SOTTO BERLINO

Una nuova carriera in una nuova città: non è solo il titolo della traccia numero sette del disco di Bowie, ma anche una sintesi perfetta della storia che si cela dietro a questo album-capolavoro, uscito nell’ormai lontano 1977, ma ancora oggi capace di stupire gli ascoltatori di vecchia data, così come di fare nuovi proseliti tra i novizi.

L’undicesimo lavoro in studio di David Bowie costituisce una sorta di pietra angolare della musica pop sperimentale, nonché il primo capitolo di un percorso musicale che formerà insieme a “Heroes” (1977) e Lodger (1979) la cosiddetta trilogia berlinese – sebbene la città tedesca e i suoi mitici Hansa Studios non saranno l’unico luogo in cui si terranno le sessioni di registrazione. Berlino, infatti, qui non va intesa solo come il luogo fisico in cui Bowie scrive e registra le sue nuove canzoni, né come quello in cui decide di trasferirsi per disintossicarsi insieme all’amico Iggy Pop, ma – più che altro –  come un luogo dell’anima, capace di influenzare ogni sua manifestazione creativa di quel periodo, in quanto centro di una cultura europea a cui Bowie guardava con profondo interesse.

Già dall’album precedente, Station To Station (1976), era come se Bowie si fosse messo in viaggio – di stazione in stazione, appunto – verso la sua “mecca” europea: in un certo senso era un po’ come se l’Europa lo stesse (ri)chiamando a sé, “It’s too late to be grateful, it’s too late to be late again/ It’s too late to be hateful, the European canon is here.” In sostanza, Low è il disco con cui Bowie cerca e trova nella cultura europea – e in particolare in quella tedesca – il centro di quello che desidera, o che crede di desiderare, o meglio ancora “il desiderio di un futuro che tutti sapevano non sarebbe mai accaduto”.

A livello visivo e concettuale i principali stimoli gli saranno forniti dalla corrente dell’espressionismo tedesco e in particolare dai pittori del movimento Die Brücke, come Kirchner, Heckel e Nolde, i cui dipinti non puntavano a una resa realistica del soggetto, quanto piuttosto all’espressione di un paesaggio emotivo interiore.

(Ernst Ludwig Kirchner)                                                  (Erich_Heckel)

Lo stesso Bowie si diletterà con la pittura in cerca di uno stile simile, al punto che persino la copertina del successivo “Heroes non sarà altro che la resa fotografica di un suo autoritratto, ispirato a sua volta al Roquairol di Erich Heckel. Vedere per credere:

(Erich Heckel)                                                   (David Bowie)
A livello sonoro, invece, i punti di riferimento saranno i gruppi della cosiddetta scena Krautrock – come viene, spesso e purtroppo, volgarmente chiamata la Kosmische Musik tedesca – tra cui i Kraftwerk, i Can, i Tangerine Dream, i Neu! e gli Harmonia

Tutte queste influenze si mescoleranno insieme al talento del musicista inglese, incredibilmente non scalfito dal pessimo stato psicofisico in cui versava in quegli anni e magicamente impreziosito dall’opera di altri due geni musicali, Tony Visconti e Brian Eno:

  • il primo in veste di produttore e innovatore del suono, grazie soprattutto all’introduzione dell’Harmonizer (un dispositivo che permetteva di variare l’intonazione di qualsiasi strumento), la cui applicazione alla batteria contribuì allo sviluppo del futuro suono post punk (vedi alla voce Joy Division e Public Image Ltd.)
  • il secondo nel ruolo di “non-musicista”, tessitore di atmosfere pre-ambient e pure di guru musicale, grazie all’utilizzo delle sue “strategie oblique”, inventate per il superamento dei blocchi creativi. Si trattava, sostanzialmente, di un mazzo di carte su cui erano scritte varie istruzioni da seguire in caso di impasse, da quelle più squisitamente banali, come “vai a fare la lavatrice”, a quelle più tecniche, come “trasforma le registrazioni dei feedback in versione acustica”, fino a quelle più aperte, come “rimuovi le specificità e convertile in ambiguità”, a volte spinte ai limiti del freudiano (“il tuo errore è un’intenzione nascosta”).

Concettualmente, siamo dalle parti del cut-up burroughsiano con cui Bowie andrà a comporre i testi, mettendo insieme frammenti di frasi diverse pescati a caso, in modo da disorientare l’ascoltatore, creando un effetto straniante. Il disco viene così concepito in maniera quasi schizofrenica, senza avere un’idea ben precisa di cosa ne sarebbe venuto fuori, se non un’opera di rottura con il passato della musica pop/rock. Per agevolare il concetto, l’album – che inizialmente si sarebbe dovuto intitolare New Music: Night and Day – viene diviso in due parti, una più classica e una più sperimentale.

LATO A – L’alieno nella stanza

La prima facciata è composta da sette brani più vicini al senso comune del pop – per quanto anch’essi di non facile appeal, essendo canzoni prive della classica struttura strofa-ritornello. In alcuni casi sono brani completamente privi di testo, mentre in altri abbiamo canzoni fatte e (in)finite, dotate sì di testi, ma per lo più laconici e intrisi di un profondo senso di alienazione, isolamento e psicosi – come adulti che sono adolescenti chiusi a chiave dentro sé stessi. Il tutto è sapientemente innestato su brevi frammenti musicali (canzoni da due o tre minuti al massimo) in cui viene mischiato funk e krautrock con l’aggiunta di qualche sporadico riff di chitarra suonato da Carlos Alomar, così giusto per ricordarci chi siamo e da dove veniamo.

Fanno eccezione solo i due singoli, Sound and Vision e Be My Wife, molto più vicini alla forma canzone e non solamente un frammento di musica schizzato fuori dalla corsa frenetica della vita (come la Speed Of Life che apre il disco) o una scheggia impazzita di vetri frantumati in una stanza (Breaking Glass.).

Ecco, quella della stanza è forse la chiave interpretativa migliore per tentare di aprire le sue stesse porte e decifrare l’indecifrabile di ciò che avviene all’interno di questa prima metà del disco, dove la metafora della stanza può rappresentare al tempo stesso un riparo sicuro dal resto del mondo, una prigione autoinflitta o un luogo pericolosamente oscuro.

In Breaking Glass, ad esempio, la stanza diventa teatro di riti occulti e sfoghi di rabbia (Baby, I’ve been breaking glass in your room again / Don’t look at the carpet / I drew something awful on it – Tesoro, sto di nuovo rompendo i vetri nella tua stanza, non guardare il tappeto, ci ho disegnato sopra qualcosa di orribile). Il protagonista è una persona mentalmente instabile che dice alla sua dolce metà: “sei una persona così meravigliosa, ma hai dei problemi, non ti toccherò mai”, il tutto dopo averle devastato la camera.

Questa “stanza-canzone” dipinge, quindi, un mondo solipsistico in cui il protagonista proietta la sua psicosi su un’altra persona

È una tecnica di esteriorizzazione molto comune, che verrà utilizzata anche da Ian Curtis dei Joy Division (grandissimo fan di Bowie) per rigettare la sua epilessia in She’s Lost Control. In questo modo ci si crea una via di fuga illusoria, perché è molto più facile prendere qualcosa che non ami di te e personificarlo negli altri, così da odiarlo ed evitare di affrontarlo, ma purtroppo non è una soluzione.

In What in the World e Sound and Vision la stanza diventa un luogo più sicuro, ma il confine tra rifugio e prigione si fasottile e si confonde tra le mura in cui si rischia di sprofondare (So deep in your room) o sulle quali viene proiettata la luce blu di un televisore sempre acceso (Blue, blue, electric blue / That’s the colour of my room). Non a caso, l’immagine più potente dell’ultimo recente documentario su Bowie, Moonage Daydream girato da Brett Morgen, è quella che lo ritrae di spalle chiuso in una stanza a guardare la TV. Addosso ovviamente ha un maglione blu (blu elettrico).

L’immagine della stanza come rifugio simboleggia un altro tipo di fuga, che anziché puntare all’esterno si dirige verso il mondo interiore, proprio come farà l’alieno interpretato da Bowie nel film di Nicolas Roeg L’uomo che cadde sulla terra, tratto dall’omonimo romanzo di fantascienza di Walter Tevis. Anche lì, a un certo punto, il protagonista si ritrova solo in una stanza piena di luce blu emessa da un’intera parete di televisori:

Rassegnato alla sua nuova vita da recluso, l’alieno diventa alienato, proprio come un qualsiasi essere umano, trasformandosi così in una sorta di astronauta dello spazio interiore anziché di quello fatto di stelle, galassie e pianeti.

LATO B – L’esplorazione di nuovi mondi e nuovi suoni

In un certo senso, la seconda facciata di Low, caratterizzata da sonorità più dilatate e rarefatte, può essere considerata come un tentativo di esplorare il vasto spazio interiore di questo astronauta poco extra e molto terrestre – quasi una sorta di trasposizione musicale della massima di Dostoevskij:La vita è in noi stessi e non nell’esterno“.

Il lato B del disco si compone, così, di quattro paesaggi sonori che sono figli – o forse nipoti lontani – tanto della prima metà dell’album quanto del minimalismo di Philip Glass e Steve Reich. Si tratta di brani quasi interamente strumentali, ispirati a luoghi reali come Varsavia (Warszawa) e il Muro di Berlino (Weeping Wall), ma che, proprio come i quadri espressionisti di cui sopra, dipingono paesaggi interiori, trasmettendo qui una velata sensazione di sconfitta e depressione: il disfacimento della grandezza (Art Dacade) e del suo suono in qualcosa di “altro”, forse le ceneri da cui far nascere un nuovo “ordine musicale mondiale”.

Del resto:

Non t’interroghi qualche volta
Sul suono e sulla visione?

In questa realtà pre-ambient, immaginata e sonorizzata con l’aiuto decisivo di Brian Eno, Varsavia è un’altra delle tante tappe-stazioni (Station To Station, ricordate?) dell’anima sconquassata di un Bowie perennemente in viaggio, fuori e – soprattutto – dentro di sé, alla ricerca di un nuovo personaggio da inventare per non affrontare sé stesso (dopo Ziggy Stardust, Alladin Sane e Halloween Jack, sarà la volta del famoso Duca Bianco).

A un certo punto, udiamo anche delle parole che non riusciamo a distinguere perché ci sembrano soltanto dei suoni senza senso: si tratta, a tutti gli effetti, di un canto in una lingua inventata, ispirato a un coro balcanico da cui Bowie era stato attratto per caso durante uno dei suoi viaggi (qui potete sentire l’originale:

La sensazione è quella di udire qualcosa che potrebbe provenire al tempo stesso da un passato lontano o da un futuro irrealizzato

Anche qui si mette in pratica il principio base dell’Espressionismo: non è importante cosa viene detto (così come nei quadri espressionisti non è importante qual è il soggetto disegnato), la cosa più importante – anzi l’unica cosa che conta – è “il quadro emotivo”, l’atmosfera in cui veniamo calati.

In conclusione, nella seconda parte dell’album, l’uomo esce finalmente dalla stanza, ma continua a rimanere intrappolato dentro di sé, come se si portasse ancora dietro le mura di casa grondanti di disperazione, paranoia e smarrimento: il muro di Berlino piange (To weep) come quello di Gerusalemme, in una sorta di lamento funebre del futuro che non ha più bisogno di parole, ma soltanto di suoni che spalancano visioni di mondi interiori.

Alla fine del disco non riesci quasi più a distinguere se i fantasmi che ci si aggirano dentro sono quelli del passato (come i Subterraneans intrappolati nell’assolo di saxofono finale) o quelli del futuro. Ma in entrambi i casi, ci troviamo di fronte a una musica nuova che cerca a tutti i costi di afferrarli.

IL SIGNIFICATO DELLA COPERTINA

Un’ultima cosa da notare è l’immagine di copertina tratta, come quella di Station to Station, da un fotogramma del film L’uomo che cadde sulla terra. La foto abbinata al titolo del disco (Low significa sia “basso” che “depresso”) crea un gioco di parole che sottende da un lato il dolore interiore del protagonista e dall’altro il “basso profilo” che Bowie intendeva assumere col suo trasferimento a Berlino, nel tentativo di sfuggire a una droga ancora più pericolosa della cocaina: la fama.

Tuttavia, possiamo dire che questo è forse uno dei pochissimi esperimenti della sua vita a non essergli riuscito

Col tempo, infatti, il suo successo non ha fatto altro che crescere – sfociando quasi nel mitologico – e il suo profilo, anziché rimanere in basso, è salito sempre più in alto; talmente in alto da diventare, con l’uscita dell’ultimo album, pubblicato pochi giorni prima della sua morte, una stella nera (BlackStar), capace di brillare ancora e per sempre unicamente a modo suo.

— Onda Musicale

Tags: Iggy Pop, Brian Eno, Ziggy Stardust
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