Negli anni Novanta, per chi avesse avuto vent’anni, la scelta era tra Grunge e Brit Rock. A Francesco Bianconi piacevano tutti e due e anche molto altro: così nascono i Baustelle.
Il primo nucleo dei Baustelle si forma a Montepulciano, nella profonda provincia di Siena. All’inizio si chiamano The Subterraneans e nella band suonano sia Francesco Bianconi che Claudio Brasini. Bianconi è l’aspirante frontman, studia semiotica delle arti a Siena e si nutre di tutto ciò che è bello.
A livello musicale Francesco non disdegna il panorama coevo, dagli Smashing Pumpkins ai Sonic Youth, passando per il Brit nobile e ironico dei Pulp di Jarvis Cocker, nume tutelare e ispirazione per il nostro. Bianconi, però, è un onnivoro dell’arte maledetta e votata all’estetica, una sorta di giovane dandy di provincia. Ama la canzone d’autore francese, da Brassens a Gainsbourg, ma anche il pop raffinato americano di Bacharach e Phil Spector.
Il giovane, però, ama soprattutto i grandi autori italiani, da Tenco a Ciampi, di cui contribuisce alla riscoperta, fino a Fabrizio De André, al cui timbro finisce per avvicinarsi sempre di più. La cultura pop di Bianconi, che darà vita a un citazionismo proverbiale, croce e delizia dei Baustelle, non si ferma solo alla musica. Tutto il cinema d’autore degli anni Cinquanta e Sessanta, ma soprattutto quello di genere dei Settanta e le loro colonne sonore finiscono nel frullatore che ispira la band.
Montepulciano inizia a stare stretta ai nostri giovani musicisti.
La provincia toscana, tanto decantata sui dépliant delle agenzie di viaggio e nei filmetti americani più ingenui, è bellissima ma è pur sempre provincia. E in provincia, per dei ragazzi che sognano le luci dei palchi, c’è davvero poco da fare.
Normale, quindi, che Bianconi e compagnia coltivino il loro sogno rock. Nel farlo, si rendono conto che alla loro musica, in particolare ai bellissimi testi di Bianconi, manca qualcosa: una voce femminile. Dopo alcuni provini, si presenta una giovane timidissima che suona vari strumenti e sfoggia un timbro sicuro e peculiare, Rachele Bastreghi.
L’inserimento di Rachele, all’inizio in sordina, finisce per regalare alla band l’equilibrio ricercato. I testi di Francesco, a volte di stampo quasi cinematografico, acquisiscono un nuovo senso con la possibilità delle due voci. E, mentre come in un libro dell’amato Luciano Bianciardi, Francesco va a Milano per scrivere nientemeno che su una rivista di giardinaggio, il destino si compie.
All’ennesimo demo, grazie anche alla voce di Rachele, qualcuno si accorge di loro.
La band, nel frattempo, ha mutato il nome nel misterioso Baustelle. Il moniker, narra la leggenda, è stato scelto aprendo quasi a caso un dizionario di tedesco, pescando forse l’unica parola che suona piacevolmente dell’idioma germanico. Baustelle, ovvero lavori in corso.
L’onomatopea bau, le stelle, elle che rimanda al mondo femminile e al cantautorato francese, perfino il nome della band è un tesoro di citazioni. I contatti giusti ci sono, il nome pure, la formazione si assesta con Bianconi, Bastreghi, Brasini alla chitarra e il talentuoso Fabrizio Massara alla parte elettronica. Manca solo il disco di debutto.
Il Sussidiario Illustrato della Giovinezza è il primo disco, prodotto in povertà e testimonianza di un altro talento di Bianconi, quello per i titoli. L’etichetta si chiama Baracca&Burattini e rende bene l’idea di precariato indipendente.
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“In questi tempi per me Baustelle ha rappresentato ciò che la radio non mi trasmetteva al mattino per svegliarmi, così come non lo faceva la sera tardi per accarezzarmi. Ho cercato di fare quello che non ascoltavo in tanti dischi che ruotano sui network o su MTV. C’è anche una componente di sfida: non tanto – non solo – il desiderio di diventare famoso: per me Baustelle è fondamentalmente quello che non riesco a trovare in questo momento.”
La produzione è di Amerigo Verardi, apprezzato nome della scena indipendente, e il Sussidiario diventa subito un piccolo cult.
L’album si apre con Le Vacanze dell’ottantatré, canzone che inizia con una sorta di arpeggio elettronico e che suona un po’ come una dichiarazione d’intenti. C’è una batteria che pare quella di Tomorrow never knows, ci sono i coretti da libreria musicale anni Settanta, la voce profonda e maledetta di Bianconi e tanta nostalgia di epoche non vissute.
Già, perché l’ottantatré delle vacanze cantate è ovviamente un’epoca fuori portata per i Baustelle, troppo giovani per la vicenda. Il pezzo assume così la dimensione del racconto di formazione e quel romanzo erotico citato pare quasi il concept non dichiarato su cui si basano i dieci pezzi dell’album.
Le vacanze dell’ottantatré, però, è anche altro. Sì, perché la canzone è il primo contatto coi Baustelle per chi ascolta all’epoca l’album e presenta già una serie di cliché della band toscana. Il ritornello killer, il finale accelerato e un gusto melodico che pare citare cento altre canzoni ma alla fine è unico e proprio del complesso.
La successiva Martina conserva la stessa atmosfera da romanzo di formazione maledetto. Il ritmo è sostenuto ma non manca anche qui una melodia catchy, sostenuta da una ritmica decisamente più rock; era comunque l’epoca del grunge. Su tutto aleggia il Brit dandy degli amati Pulp e un immaginario adolescenziale malato, tra rasoi, autolesionismo e amori andati (a) male.
Sadik si mantiene perfettamente in equilibrio sugli stessi toni, proponendo un immaginario da modernariato che omaggia l’horror anni Sessanta e Settanta, con tanto di parti audio prese da film d’epoca. Le citazioni vanno dai fumetti (Sadik, per l’appunto) al cinema, da Bava a Dario Argento. Il ritornello rallentato colpisce e stupisce.
Noi bambine non abbiamo scelta è il primo affondo su temi più torbidi, ma sempre legati all’adolescenza. Una sorta di tentativo di fuga dalla provincia, anche se magari col ragazzo sbagliato. A livello musicale, però, il pezzo è importante, rappresentando la prima frenata sui ritmi languidi che torneranno spesso nella discografia dei Baustelle.
L’andamento sincopato del canto di Bianconi, con Rachele che fin qui si occupa soprattutto dei cori, è un altro cliché del loro primo repertorio.
La successiva Gomma è forse il primo pezzo dei Baustelle a guadagnarsi il titolo di cult. Di nuovo un racconto dell’adolescenza, coi suoi fremiti e le sue pulsioni da assecondare o tenere a freno. Un periodo che raramente era stato raccontato con tanta efficacia, classe e studiata sincerità. Gomma è anche il primo pezzo in cui Rachele Bastreghi mostra in pieno le sue potenzialità. La melodia accattivante fa di Gomma un brano potenzialmente tormentone, che all’epoca passa però quasi sotto silenzio.
Con Gomma, il Sussidiario entra nella sua parte centrale, quella migliore. La Canzone del Parco è forse il capolavoro del disco e sicuramente una delle vette del canzoniere dei Baustelle. Il brano, lentissimo e cadenzato, è diviso in due sezioni distinte e narra una semplice storia d’amore di due ragazzi.
Introdotto da un sussurro elettronico minimalista, vede l’ispirata voce di Rachele raccontare l’incontro di due adolescenti al parco. Il pezzo mostra un crescendo lento ed estenuante, sottolineato dall’ingresso di una splendida chitarra elettrica e dalla voce bassa di Bianconi che doppia la Bastreghi. Dopo un intermezzo chitarristico tutto sulle corde basse, il punto di vista cambia.
Un twist che rende il pezzo un capolavoro, con la voce narrante che diventa quella di un albero del parco. La voce si chiede a cosa pensino questi umani fragili e invidia agli uomini gli istanti d’amore preclusi alla sua esistenza secolare. La voce di Rachele cresce senza perdere espressività e mostrando una potenza insospettata. Inutile fare i duri: il crescendo de La Canzone del Parco è una delle poche cose che facciano venire davvero i brividi della moderna canzone d’autore italiana.
Una canzone perfetta che non sbaglia nulla, dal testo all’arrangiamento, e manda K.O. anche l’ascoltatore più smaliziato.
Il trittico di capolavori centrali del disco si chiude con La Canzone del Riformatorio, altro pezzo da novanta della poetica baustelliana. Il brano, smaccatamente ispirato ai Pulp, tra Common People e Disco 2000, propone un tipico corto circuito dello stile di Bianconi. Il tono del pezzo, infatti, è allegro o comunque ritmato e quasi ballabile, mentre il tema è davvero ostico.
Un contrasto che rimanda in un certo senso a De André e ottiene un effetto straniante molto efficace. Il testo narra infatti l’adolescenza perduta di un ragazzo fragile che, sotto i fumi di droga e alcol, usa violenza a una coetanea di cui è invaghito. L’atteggiamento totalmente privo di toni moralistici e di giudizio sarà la cifra di tanti testi di Bianconi, ma qui è particolarmente efficace.
La divisione tra vittima e carnefice si fa labile e anche il predatore pare inevitabile capro espiatorio di una società crudele più del criminale. Un coro morriconiano conclude in gloria uno dei capolavori dei Baustelle, un pezzo dove la pietas umana di Bianconi verso gli ultimi è commovente.
Il disco si avvia al rush finale con un altro trittico un po’ sottovalutato ma che riserva belle soddisfazioni. E una caterva di citazioni. La bella Cinecittà, lenta e sinuosa, è già dal titolo la canzone più cinematografica. In un vero dialogo viene messo in scena un provino per un film – ancora – erotico. Il testo è un po’ la scusa per mettere sul tavolo una serie di citazioni, da La Vita Agra di Bianciardi a grandi registi, da Fellini a Pietrangeli, dalla Dolce Vita a Morricone.
La voce che recita la parte della ragazza del casting e della bravissima attrice Camilla Filippi, maliziosa e suadente al punto giusto.
Io e te nell’appartamento narra ancora i fugaci incontri di due amanti, tuffando ancora l’atmosfera in una torbida adolescenza di provincia. All’andamento svelto e sincopato, e non proprio riuscitissimo, delle strofe fa da contraltare un ritornello che sfodera una melodia stupenda. Un pezzo forse non completamente centrato ma apprezzabile.
La chiusura è per Il Musichiere 999, altro pezzo che fa del citazionismo il perno. Su una languida base electro pop e sui cori angelici di Rachele, la voce carezzevole di Bianconi elenca praticamente tutti i suoi riferimenti. Alternando come sempre un linguaggio ricercato e quasi retrò a passaggi più pulp, vengono elencati De André, Gainsbourg, Lolita, Juliette Greco.
Si tratta di un immaginario che probabilmente il pubblico dei Baustelle non conosce nemmeno, o che forse impara proprio grazie a questo pugno di canzoni, ma che fa comunque grande presa.
Il Sussidiario Illustrato della Giovinezza centra pienamente i suoi obiettivi principali; traccia la via per uno dei percorsi più personali e colti del pop italiano e fa notare i Baustelle negli ambienti che contano. Subito arriva il premio per il Miglior Debutto dell’Anno della rivista Il Mucchio Selvaggio. Più tardi, dopo la replica del sophomore La Moda del Lento, arriverà il contratto con una major per La Malavita.
I Baustelle, da allora, diventano oggetto di un culto particolare, che li tiene sospesi in un limbo. Troppo raffinati per il successo col pubblico nazional popolare, ma a volte osteggiati da quello più alternativo, che non perdona l’outsider che si smarca dall’anonimato.
Fabrizio Massara abbandona quasi subito, ma la traiettoria dei Baustelle ne risente solo in parte; Francesco Bianconi diventa apprezzato autore anche conto terzi, con qualche puntata a Sanremo e nel mainstream. Negli anni i testi abbandonano – giustamente – le atmosfere adolescenziali per seguire un percorso sempre più d’autore, comunque strizzando l’occhio al pop raffinato e spruzzato d’elettronica.
Un percorso che, tra qualche episodio solista e collaborazioni varie, prosegue ancora oggi. Tra qualche mese, infatti, dovrebbe uscire il nuovo, atteso capitolo della discografia cult dei Baustelle.