Musica

Lucinda Williams in concerto a Milano. Dove lo spirito incontra le ossa

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Per la prima data del suo tour europeo, “la cantante bianca più nera della Louisiana” sbarca a Milano e la “illumina di meno”.

Sul palco del teatro lirico Giorgio Gaber, situato in pieno centro, a pochi passi dal Duomo – tra cartelloni pubblicitari sfavillanti e insegne luminose colorate – Lucinda Williams porta un set di canzoni disagiate da periferia del mondo e bar scalcagnati.

Eppur non stona – come potrebbe del resto con quella voce benedetta dal signore e al tempo stesso maledetta dal diavolo? – ma trova, anzi, il modo di insediare dentro una città che ormai ammette solo vincenti – stritolando tutti gli altri tra affitti stellari e lavori precari – tutte le sue storie popolate di splendidi disadattati, luminosi perdenti e sconfitti iridescenti.

D’altra parte, quando si tratta di essere la persona giusta, al momento giusto, nel posto sbagliato Lucinda Williams è leader nel settore

L’ex ragazza innamorata della sconfitta che ormai ragazza non è più – e le candeline sulla torta quest’anno saranno 70 – è sempre stata una un po’ fuori posto: troppo rock per il country e troppo country per il rock, dicevano di lei all’inizio le case discografiche – ma anche troppo folk per il blues e troppo blues per il folk. Insomma, si sa, ad essere rigidi, non se ne esce. E allora alla fine è lei che in qualche modo “ci è entra lo stesso”, trovandosi un posto tutto suo e dimostrando quanto effimere possono essere a volte le distinzioni fra i vari generi.

A ulteriore conferma di ciò, nel tempo vincerà tre Grammy in tre categorie diverse: “miglior canzone countrycon Passionate Kisses (portata al successo dall’interpretazione di Mary Chapin Carpenter nel 1994),“miglior album folkcontemporaneo” con il capolavoro irripetibile di Car Wheels on a Gravel Road del ’98e “migliore perfomance vocale rock femminile” con Get Right With God nel 2002.

Ma tornando al presente e al concerto di ieri

Ad aprire la serata c’erano L.A. Edwards e i suoi fratelli, di certo non il massimo dell’originalità, ma quanto meno gli va dato il merito di aver evitato il colpo di sonno del pubblico attempato presente in sala, coinvolgendolo per una buona mezz’ora con del sano country-rock californiano da braccio fuori dal finestrino e sgommata nel deserto. Menzione d’onore per la chiosa finale con If I Needed You, scritta da Townes Van Zandt nel ’72 e portata al successo da Emmylou Harris e Don Williams nell ’81

A questo punto sono quasi le 22:00 – l’ora della mia tisana –  e proprio mentre stavo cominciando a chiedermi se non fossi ormai diventato troppo vecchio per certe cose, come assistere a un concerto infrasettimanale di martedì sera (e dover poi passare tutta la notte a scriverne) ecco che prontamente “succede qualcosa” che mi fa sentire in colpa per averlo anche soltanto pensato. Le luci si spengono, la backing band di Lucinda Williams sale su palco e comincia suonare una piccola intro totalmente al buio, poi piano piano i musicisti vengono illuminati dai faretti: in tutto un basso, una batteria, due chitarre e 3 cappelli da Cowboy, ma Lucinda non c’è.

Dopo poche note la vediamo fare il suo ingresso sul palco sorretta a braccetto dal tour manager

È questa la dura realtà: quella che eravamo abituati a vedere come una vera “bad ass” della musica rock, oggi non ce la fa quasi a camminare. Purtroppo ha avuto un ictus che l’ha parzialmente paralizzata durante il primo lockdown e anche se adesso si è ripresa, non solo fa ancora molta fatica a muoversi, ma – cosa per lei ancor più grave – non è più in grado di suonare la chitarra (anche se, lo dirà chiaramente nel corso della serata, ci spera ancora).

In pratica, le è rimasta solo la voce

Quella voce inconfondibilmente roca, un po’ alla Janis Joplin, che da giovane aveva rischiato addirittura di perdere perché per pagarsi l’affitto aveva cantato così tanto in locali fumosi da sforzarla troppo, fino a farsi venire dei noduli alle corde vocali. Quella voce, era così ruvida – diceva Emmylou Harris ed era un complimento – da raschiare la cromatura di un gancio traino. Col tempo si è forse un po’ ammorbidita, ma ancora oggi è in grado di graffiare l’anima e lasciarci sopra cicatrici permanenti.

Come ha scritto Ann Powers, parafrasando uno dei suoi testi più evocativi (ndr. Something About What Happens When We Talk), c’è qualcosa che accade quando si ascolta una canzone di Lucinda Williams:

È la sensazione di veder crescere qualcosa come un fiore su una vite: un ricordo, un’immagine pienamente compiuta, la vita interiore di una persona che si dispiega. Williams crea parole e melodie che sembrano avere origine nella testa dell’ascoltatore, catturando il modo in cui osservazioni vaganti e fantasticherie si intrecciano per diventare le storie che raccontiamo a noi stessi e agli altri. Le sue canzoni ricordano il modo in cui William Carlos Williams (non è un parente) descriveva il compito di scrivere poesie: “Non stiamo mettendo la rosa, la singola rosa, nel piccolo vaso di vetro della finestra – stiamo scavando una buca per l’albero – e mentre scaviamo siamo scomparsi in essa”.

Ecco, la poesia è l’altra cosa che le è rimasta

La Williams infatti è maestra nel “trasformare gli scorci del privato in metafore attraverso le quali la vita si rivela, il tutto riuscendo a mantenere sempre le cose reali e autentiche, ancora Ann Powers: “le sue canzoni suonano come ciò che le persone vorrebbero potersi dire, e che solo a volte fanno”.

Non a caso qualcuno aveva cominciato a chiamarla “Raymond Carver con la chitarra”, per via delle affinità con il poeta americano del quotidiano per eccellenza.

Del resto Lucinda è figlia d’arte

Il padre era il poeta Miller Williams, non particolarmente conosciuto qui da noi, ma famosissimo negli Stati Uniti (al punto da essere stato chiamato a leggere una poesia durante la cerimonia di insediamento del presidente Clinton nel ’97). A lui è dedicato il brano If My Love Could Kill, scritto dopo la sua dipartita nel gennaio del 2015. E sempre a lui si deve un altro verso simbolo della Williams Down Where The Spirit Meets The BoneGiù, dove lo spirito incontra le ossa –  che è forse la migliore sintesi e descrizione possibile della sua musica, così come del concerto stesso.

In realtà, per capirlo veramente nel profondo dobbiamo partire dalla fine – ma non quella di questo concerto con Keep On Rockin’ In The Free World di Neil Young,pugno alzato e lacrimoni; bensì la fine di un altro concerto più lontano nel tempo: siamo negli anni ’90 – che possiamo considerare il suo periodo di massimo splendore – appena terminata l’esibizione, un ragazzo le si avvicina e le chiede come faccia a scrivere canzoni.

A quel punto, Lucinda lo guarda e gli spiega il (suo) mondo in una frase:

Devi scendere in questo pozzo profondo e oscuro, riportarlo su e scriverne”.  

Al che il ragazzo le rispose, quasi costernato, che non poteva proprio farlo. Nel raccontare questo aneddoto Lucinda Williams ricorda sempre quella risposta come una delle cose più tristi che abbia mai sentito perché “quel ragazzo era abbastanza consapevole da sapere di non essere in grado di affrontare i propri demoni: Ho pensato che la maggior parte delle persone vive così, il che è parte del problema dell’umanità e della società. Vivono tutti in superficie”.

Ecco qual è lo scopo ultimo della sua musica e dei suoi concerti

Scavare in profondità per riportare le cose in superficie e farle vedere, o in questo caso “sentire”, a tutti. Per tutta la durata del concerto la cantante bianca dall’anima nera non farà altro che tentare di scavarci un buco nel petto per arrivare laggiù in profondità (where the spirit meets the bone appunto).

Per farlo utilizzerà principalmente due tipi di canzoni

Nella prima parte dello show ci sono soprattutto quelle che affrontano il tema della morte e dell’elaborazione del lutto. Nella discografia della Williams – che copre ormai 40 anni di carriera e 14 album in studio – ci sono così tante canzoni sulla morte che ci si potrebbe coprire un intero concerto. Per la data milanese ha calato un poker d’assi composto da Stolen Moments, dedicata alla scomparsa dell’amico Tom Petty,Copenhagen per quella del vecchio manager Frank Callari, Drunken Angel, scritta per il chitarrista fuorilegge Blaze Foley e infine – la più straziante di tutte – Lake Charles: la canzone dedicata a un vecchio amante innamorato della Louisiana, che Lucinda non riuscì a salutare un’ultima volta, pur avendo fatto tutto il possibile per arrivare in tempo al suo capezzale.

A tenergli la mano fino alla fine e a cantargli le sue canzoni preferite ci sarà invece l’amica e critica musicale Margaret Moser. È lei l’angelo che gli sussurra all’orecchio nel ritornello della canzone:

Did an angel whisper in your ear?

And hold you close, and take away your fear?

In those long, last moments.

Nella seconda parte del concerto, invece, emergono i brani che sognano di continuare a suonare rock’n’roll in un mondo libero, cercando di portare un po’ più di positività sotto svariate forme

Il romanticismo imperfetto di Born To Be Loved e Righteously, la seduzione erotica di Essence e Honey Bee, la speranza di Let’s Get The Band Together e il senso di ribellione di You Can’t Rule Me di Memphis Minnie, lanciata come messaggio inequivocabile alla Corte Suprema degli Stati Uniti e alla sua recente sentenza contro l’aborto.

Per tutte le ragioni sopraesposte Lucinda Williams, anche mezza paralizzata e senza chitarra, rimane ancora “troppo cool per essere dimenticata” – 2 Kool 2 Be 4 Gotten, come diceva un’altra sua canzone memorabile, che purtroppo è rimasta fuori dalla scaletta e allora ce la infiliamo noi lo stesso in questo finale perché rappresenta la summa di tutto il discorso fatto finora: una canzone che è più una poesia, composta da una serie di frasi scritte sulle pareti di un bar del Delta del Mississippi, una specie di evocazione surrealista dello spirito dell’America del Sud, che si conclude con un poema recitativo in cui morte e speranza si tengono per mano un’ultima volta sull’orlo del precipizio.

Appoggiati al parapetto di un ponte a Lake Charles,

Affacciati sul fiume, sporgendoci in avanti

Mi chiese: “Ti butteresti in acqua insieme a me?”

Gli risposi: “Proprio no tesoro, è la tua, di morte, non vedi?”

Leaning against the railing of a Lake Charles bridge

Overlooking the river, leaning over the edge

He asked me: Would you jump into the water with me?

I told him: No way, baby, that’s your own death, you see?

Scaletta:

— Onda Musicale

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