La scomparsa di Jeff Beck ha privato la musica di uno dei suoi chitarristi più versatili e meno inclini ai compromessi. Un musicista amato soprattutto dagli altri musicisti è che costituiva uno dei vertici del triangolo sacro della scena britannica. Oggi vi raccontiamo Beck-Ola.
Jeff Beck, infatti, fin dagli esordi degli anni Sessanta è stato una delle punte della triade composta da Eric Clapton e Jimmy Page. Un destino curioso quello che li lega, visto che per tutti e tre si incrocia con quello degli Yardbirds, band in cui militano prima del grande successo. Rispetto a Eric e Jimmy, Beck non ottiene mai lo stesso clamore presso il pubblico generalista.
La colpa – o il merito, fate voi – è di scelte non sempre avvedute e di una certa difficoltà a cementare le anime di un complesso rock tipica di Beck, ma non solo. Jeff, infatti, è il più inquieto dei tre. Eric Clapton trova da subito nel blues la sua ragione di vita, tanto che abbandona gli Yardbirds, aprendo le porte a Jeff, proprio quando la band abbandona l’ispirazione nera.
Dopo la sbronza di blues ad alti ottani con John Mayall e Cream e un periodo piuttosto lungo di autodistruzione, Eric trova la sua cifra in un blues rilassato e di facile presa fin dalla metà degli anni Settanta. Jimmy Page, invece, pesca il biglietto vincente della lotteria mettendo insieme i Led Zeppelin. Anche se la realtà come sempre non è così semplice, molti gli attribuiscono la paternità dell’hard rock.
A differenza loro, che trovato uno stile rinunciano per tutta la carriera a progredire, Jeff Beck non si accontenta. Già le sue radici sono più volubili: Jeff ama il blues e lo suona da dio, ma si ispira anche al country e al rock’n’roll. Non solo, dopo aver tentato per anni la via del successo scippatogli dai Led Zeppelin col Jeff Beck Group, suonando una miscela di rock-blues e hard rock talmente dura da anticipare certi cliché del metal, Jeff cambia tutto.
Esaurita la parentesi del supergruppo con Bogart e Appice, Beck inizia la sua vera parabola solista. Da lì in poi suonerà jazz-rock, fusion, funk, soul e pop, con buona pace di qualche genere che sicuramente dimentichiamo.
Nel 1969, però è ancora fresco lo smacco che il chitarrista attribuisce a Page e al primo disco dei Led Zeppelin. Per Beck, l’esordio del dirigibile è una scopiazzatura di Truth, primo lavoro del Jeff Beck Group, con tanto di versione gemella di You Shook Me, standard blues. Il problema è che i Led Zeppelin hanno un successo molto superiore.
Jeff decide che il ferro va battuto ben caldo e, appena l’anno dopo, mette a segno il secondo episodio della saga del suo gruppo. Il lavoro si intitola Beck-Ola, un gioco di parole non proprio memorabile con la compagnia di juke-box Rock-Ola, che finisce però per diventare di culto. Per Beck-Ola il complesso fa una messa a punto vigorosa.

Beck, infatti, forse per rincorrere il suono granitico dei Led Zeppelin, vuole dare maggior peso alla sezione ritmica. Micky Waller, batterista originale dal suono più soul, viene così rimpiazzato da Tony Newman, musicista decisamente più roccioso e potente. Nicky Hopkins, uno dei migliori pianisti dell’epoca, entra a far parte del complesso dopo aver collaborato come turnista.
Alla fama di supergruppo danno l’apporto decisivo Ron Wood, che suona ancora il basso e naviga ancora lontano dal futuro come chitarrista di Faces e Rolling Stones, e Rod Stewart. Il cantante scozzese dall’ugola di carta vetrata è all’ultima collaborazione con Jeff Beck; troppo spigolosi i caratteri dei due per coesistere.
Prima di parlare del disco, un cenno alla copertina.
La grafica, contrassegnata sul retro da un inquietante attribuzione a Cosa Nostra, riprende un celebre dipinto di Renè Magritte, La Chambre d’Ecoutè. Sebbene oggi l’illustrazione contribuisca all’aura di cult del lavoro, all’epoca Jeff la ritiene una dimostrazione di come sia impossibile creare una copertina originale.
Beck-Ola si apre con una delle due cover del disco, il classico rock’n’roll di Elvis All Shook Up. La versione è coraggiosa, un po’ perché nell’era in cui tutti sono proiettati nel futuro e la scena è dominata dal blues, ripesca un pezzo americano anni Cinquanta. La resa è stravolta, rilassata e rallentata, col piano di Hopkins in evidenza e la voce arrochita di Rod Stewart in grande spolvero.
La chitarra di Jeff Beck è come sempre esemplare, pesante, effettata ma senza mai sbrodolarsi troppo. Come sarà sempre sua abitudine, Beck punteggia il brano con parti brevi e secche, e soprattutto cambiando di frequente registro. Ecco così alternarsi veloci lick di chitarra distorta con passaggi alla slide e fioriture ritmiche di potenza tonitruante.
Spanish Boots è una composizione originale di Stewart, Wood e Beck stesso.
Siamo di fronte alla cura muscolare del suono avvenuta grazie all’innesto di Newman. La ritmica è talmente pesante da far gridare alcuni al proto-metal, l’andamento è sincopato e la chitarra di Beck punteggia il tutto con passaggi di puro hard-blues.
Il sound è forse più vicino ai Cream – ma ancora più spigoloso – che a quello degli Zeppelin a cui il gruppo viene sempre accostato. Spanish Boots non è un capolavoro di originalità, certo, ma un’ottima occasione per ascoltare l’ispirata chitarra di Jeff Beck quando era ancora concentrata sulle scale blues.
All’improvviso, quasi a dar ragione ai detrattori che accusano i dischi rock di Beck di una certa mancanza di omogeneità, arriva Girl From Mill Valley. Il brano, strumentale, è di Nicky Hopkins ed è guidato giustamente dal suo pianoforte. Pare quasi di trovarsi davanti a una ballata di Tom Waits o al Bob Dylan più sdolcinato. Un pezzo dalla buona atmosfera ma che tutti, ancora oggi, si domandano come sia finito in Beck-Ola.
A chiudere il vinile dell’epoca arriva l’altra cover, Jailhouse Rock.
Ancora una volta Beck attinge dallo sterminato repertorio di King Elvis. E di nuovo lo fa proponendo una resa rallentata, quasi drogata e geometrica dello scatenato rock’n’roll originale. Le parti di chitarra di Jeff sono emblematiche del suo stile: piene di effetti fatti in casa, giocando con la leva del vibrato e coi volumi.
I trucchi che il maestro usa sono per palati fini, forse troppo ricercati per il pubblico che impazzisce per Clapton e Page, sicuramente una gioia per qualsiasi chitarrista con un po’ di sale in zucca. I continui break che accelerano improvvisamente rimandano molto a certi passaggi degli Yardbirds.
La seconda facciata si apre con Plynth (Water Down the Drain), che dopo qualche secondo di piano quasi da vaudeville, si fa apprezzare per la durezza. A un riff roccioso si oppongono anche qui i brevi affondi di Beck. Il chitarrista, da sempre poco interessato agli assoli chilometrici da guitar hero, propone passaggi veloci e qualche virtuosismo. Tipico della sua cifra è però proporre frasi di tecnica inarrivabile ma, allo stesso tempo, digeribili anche per l’ascoltatore meno smaliziato.
The Hangman’s Knee, di nuovo dura come marmo, è forse il passaggio più genuinamente blues di Beck-Ola. Rod Stewart sfoggia una voce incredibilmente efficace e pertinente al genere; negli anni Sir Rod ammiccherà sempre più al pop anche sdolcinato, ma all’epoca non ha nulla da invidiare a vocalist più celebrati dell’hard rock.
Jeff Beck qui si concede una pausa di rilassatezza, gettandosi nelle sicure e accoglienti braccia del blues; i lunghi affondi con la slide rendono il pezzo paradigmatico dell’insuperabile capacità mimetica di Beck, qui a suo agio come il più pirotecnico dei bluesman. Sempre senza perdere la misura.
Beck-Ola non ha certo il difetto della prolissità: una mezz’ora col pedale dell’acceleratore pestato al massimo et voilà, è già finito. La chiusura spetta a Rice Pudding, lunghissimo strumentale in cui Jeff Beck dà fondo a tutto il suo ancora giovane repertorio tecnico. A un andamento sostenuto si abbinano passaggi rallentati da slow blues, col basso muscoloso di Wood e la batteria potente di Newman in bella evidenza.
Nella parte centrale il ritmo rallenta ancora di più, con una parte slide psichedelica che echeggia certe cose future dei Pink Floyd, dando al pezzo un tono quasi da rock progressivo, allora ancora al di là da venire.
Nella versione rimasterizzata di Beck-Ola, per aggiungere un po’ di minuti, sono presenti quattro interessanti bonus track. La prima, una versione di Sweet Little Angel di B. B. King, arriva da una vecchia jam, con Waller alla batteria. Il blues, lentissimo e di quasi otto minuti, getta una luce sulla poca malizia di Beck e soci. Il pezzo, infatti, propone passaggi di chitarra da brivido e una prestazione di Stewart che anticipa anni di urla di Robert Plant.
La chitarra blues di Beck piange qui come forse non farà mai più. Davvero un peccato che un brano così non appaia sulla versione originale dell’epoca. Forse una sliding door mancata dal buon Jeff.
Gli altri brani aggiungono poco.
Throw Down A Line è una ballata beat quasi melodica, bella ma che sarebbe risultata fuori contesto; interessanti le due versioni alternative delle cover di Elvis, soprattutto All Shook Up, in una resa che fa risaltare di più la fatata chitarra di Beck.
Insomma, Beck-Ola è un lavoro che non sarà certo il più rivoluzionario per il chitarrista di Londra, ma che getta una dolce luce di rimpianto su quel che poteva essere e che non è stato. Al netto di una carriera comunque di culto, ma lontana dai fasti che avrebbe meritato.