Tanto tuonò che piovve: è uscito Rush!, l’atteso nuovo album dei Måneskin. Tra collaborazioni eccellenti e una lunga lista di nuovi brani, vediamo come suona senza i (soliti) pregiudizi.
Rush! arriva dopo la sbornia di successo e la straripante visibilità degli ultimi anni. I Måneskin, infatti, usciti dal tritacarne musicale dei talent, da X Factor in particolare, sono passati dai garage in cui provavano alla vittoria all’Eurovision Festival e alla ribalta ambita da tutte le band fin dagli anni Sessanta, quella americana.
Parlare dei Måneskin è, per un redattore, una delle sfide più impegnative del momento. Tu pensi di parlare di musica, assoli di chitarra, potenza della sezione ritmica e invece no, tutto questo non interessa praticamente a nessuno. I Måneskin, infatti, da rock band hanno finito per trasformarsi in un gigantesco esperimento sociologico, tanto interessante quanto forse involontario.
Ed è proprio di questo che cercheremo di non parlare, concentrandoci sulla loro musica, al netto di un paio di considerazioni. Prima, cercare il confronto coi mostri sacri del rock pare poco pertinente, se non addirittura scorretto nei confronti di quattro ragazzi ben piantati nella realtà di oggi e non in quella degli anni Settanta.
Secondo, per dirla con Manuel Agnelli, loro mentore da sempre, analizzare il fenomeno Måneskin senza tenere per niente conto delle implicazioni sociali è a sua volta ingiusto. Tantomeno considerarli musicisti rock tout court: i Måneskin sono un gruppo mainstream che sfrutta un certo immaginario rock ben radicato.
Le chitarre elettriche, gesti abusati come gli strumenti distrutti e lo scotch sui capezzoli sono una sorta di coperta che tenta di tenere caldo il decennale cadavere del rock.
Detto questo, passiamo a Rush!
Il disco è un prodotto pensato per rafforzare la posizione raggiunta sul mercato internazionale. Alle altezze commerciali raggiunte è normale che il prodotto Måneskin diventi oggetto d’attenzione di major e grandi nomi. È così che la lista di autori e produttori diventa lunga come la proverbiale barba del profeta.
Captain Cuts, Fabrizio Ferraguzzo, LostBoy, Måneskin, Mattman & Robin, Max Martin, Rami Yacoub alla cabina di regia e pezzi che sfoggiano tra i crediti autori a manciate. I brani sono diciassette, compresi i ripescaggi dei singoli Mammamia e Supermodel, da molti già dimenticati. Tre brani sono in italiano, gli altri sono tutti composti con un occhio e mezzo al mercato internazionale.
L’album, a prima vista, pare decisamente troppo lungo, ma in tempi di streaming e musica a peso gli standard sono questi. La parte grafica è curata e levigata, come si addice al pop. La foto di copertina strizza l’occhio alla scabrosità un po’ parrocchiale tipica della band: una ragazza spicca un balzo mentre i quattro, stesi a terra, le guardano sotto la gonnella. Un’estetica pop punk anni Novanta che al loro target di riferimento sembrerà nuova di zecca.
Mettiamo il disco sul piatto.
Si attacca con Own My Mind; la ritmica e la voce di Damiano ci precipitano subito in un’atmosfera Måneskin al cento per cento. Un incubo, per alcuni, la comfort zone cercata per altri. Il fatto poi che il brano suoni alla Måneskin non è considerazione da poco: per quanti altri gruppi potremmo oggi dire la stessa cosa?
Non manca nulla: il ritornello da imparare e cantare ai concerti, il basso di Victoria in evidenza a rimarcare le sue buone capacità e qualche nota singola di Thomas. Va detto che, al netto di tutto, il pezzo suona davvero blando, facendosi dimenticare appena sfumata la dissolvenza.
Diverso il discorso di Gossip, in cui i ragazzi si giocano subito uno dei pezzi forti di Rush!, la partecipazione di Tom Morello. L’andamento è sostenuto e il ritornello sfoggia una melodia abbastanza sghemba da piantarsi in testa. Il sound è fin troppo pulito e patinato e le liriche antisistema fanno sinceramente sorridere di tenerezza. Anche questa patina di ribellione d’ordinanza, però, può risultare efficace per il pubblico più giovane e meno cinico che si annida nel loro target.
Il breve assolo di Morello, magari anche suonato solo per fare cassa, chiarisce bene però cosa dovrebbe essere un vero pezzo rock.
Timezone attacca con un bell’arpeggio di chitarra elettrica e la voce sofferta di Damiano. In fondo, senza l’arrangiamento rock che esplode di lì a poco, potrebbe essere una ballata di Ed Sheeran. Il pezzo dura tre minuti, come ben si addice allo spettacolo rock messo in scena; a trenta secondi dalla fine, puntuale come un treno del ventennio, arriva l’assolo di Thomas Raggi, carino anziché no.
Bla Bla Bla è un brano sinceramente inascoltabile; forse con una scaletta così corposa un taglio sarebbe stato salutare. L’attacco di Baby Said, col basso pompato di Victoria, inizia a far affacciare alle orecchie un’idea di già sentito; i brani, effettivamente, fino a questo punto tendono a somigliarsi davvero tanto. Il ritornello, catchy quanto basta, farà ballare i loro fan.
Gasoline, scritta tempo fa a sostegno dell’Ucraina, si schiera apprezzabilmente su un tema scottante. Per chi si fomenta all’idea del politicamente corretto (questo fantasma dal significato sfuggente) l’occasione per criticarli aspramente, per gli altri quasi quattro minuti di puro stile Måneskin con un Damiano leggermente più misurato.
Feel costituisce un po’ l’esempio delle liriche di Rush! Costruite sulla triade tradizionale, sesso, droga e rock’n’roll. Dove le prime due prevalgono in modo schiacciante. Musicalmente il pezzo sembra preso dal repertorio dei White Stripes e remixato per le discoteche.
La sezione centrale di Rush! fa di nuovo riflettere sulla lunghezza del disco; l’album non è sicuramente destinato a cambiare la storia del rock, ma una durata inferiore, magari con dieci o undici pezzi, avrebbe sicuramente permesso una selezione salvifica.
Don’t Want Sleep propone una parte di chitarra abbastanza incisiva ma poco altro; Kool Kids suona se non altro completamente diversa dagli altri pezzi, con la voce di Damiano che non pare nemmeno la sua; un brano pop punk non disprezzabile.
Arriviamo così al momento di un’altra ballatona di quelle per cui le fan e i fan di Damiano si strapperanno i capelli, It’s Not For You. Ancora un arpeggio elettrico del buon Thomas Raggi a sostenere la voce del frontman, qui apprezzabilmente misurato. Un finale con coretti e tanto d’archi per il passaggio più romantico del disco. Tutto sommato un bel pezzo, proprio quando il rock viene tenuto a distanza.
Con Read Your Diary si torna al solito pastone tra Green Day, Red Hot Chili Peppers e tanto pop radiofonico. Intendiamoci, un pop ben suonato, con Ethan Torchio alle pelli che non perde un colpo e gli altri che ci danno dentro.
Arriviamo così ai pezzi in italiano. Mark Chapman è un po’ il consueto rap rock di cui Damiano pare non poter fare a meno. Il titolo prende ovviamente spunto dall’assassino di John Lennon e narra la storia di un ammiratore stalker. Tutto sommato un buon brano, impreziosito da un assolo di chitarra che nello stile richiama proprio Tom Morello.
La Fine, col rap di Damiano e il riff di chitarra pare quasi un’alternate take di Zitti e buoni e tanti altri brani. Il testo, come in altri pezzi di Rush!, è un pretesto per lamentarsi di essere perseguitati da hater non meglio specificati. Ovviamente i Måneskin fanno bene a togliersi i loro sassolini dalle scarpe, ma a volte la vittimizzazione pare un po’ eccessiva.
Il Dono della Vita è di nuovo una ballata lenta, punteggiata dalle pennate di Thomas Raggi. Un buon brano d’atmosfera che finisce un po’ soffocato dall’interminabile tracklist. Interessante il finale, col ritmo che accelera prima di una brusca frenata e una parte di chitarra, forse troppo breve, che esplora fraseggi più blueseggianti.
Il finale di Rush! è con tre singoli già ampiamente ascoltati. Mammamia è forse una delle canzoni più brutte del repertorio, Supermodel un tentativo riuscito a metà di ibridare Kurt Cobain e Ed Sheeran. The Loneliest, di cui abbiamo già parlato tempo fa, è l’ennesimo lentone del disco.
Concludendo, Rush! è un lavoro che vuole accontentare un po’ tutti, cosa che in genere non prelude a grandi capolavori. Il suono è sicuramente migliorato come qualità in virtù di una produzione che scomoda grandi nomi del pop, anche se forse troppo levigata. Lo spettacolo messo in scena è insomma studiato per piacere al pubblico di riferimento ed è studiato bene.
Certe dichiarazioni dei ragazzi, che dicono di essersi ispirati ai Radiohead, fanno un po’ sorridere. Sarebbe interessante sapere il parere di Thom Yorke su un pezzo come Mammamia; tutto, però, è buono per crescere.
Il giudizio, in questi casi, non può che essere duplice: Rush! è un lavoro ampiamente sufficiente per raggiungere gli obiettivi prefissi, sebbene la lunghezza sia eccessiva anche in tempi di playlist. Se guardato invece, ma giusto per il gusto di farlo, con l’occhio degli appassionati del rock di una volta, Rush! non può che risultare un’esperienza estenuante.
Il problema, però, è che non sarebbero gli occhi giusti. Rush! ci pone insomma davanti a un esercizio di onestà intellettuale, ovvero accettare che se un prodotto piace a milioni di persone e a noi fa schifo, evidentemente non è un prodotto pensato per noi.