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Roger the Engineer, storia e recensione del disco degli Yardbirds

La band ai tempi di Roger the Engineer

Roger the Engineer è il terzo album in studio degli Yardbirds ed è il primo in cui Jeff Beck suona in tutti i brani. Pochi sanno, però, che Roger the Engineer non è il vero titolo del disco.

E sì, iniziamo subito con questa piccola curiosità. Come per album ancora più famosi, vedi il White Album dei Beatles o il Black Album dei Metallica, il titolo era in origine semplicemente The Yardbirds. Una scelta, quella del titolo eponimo, che forse allude a una seconda nascita del gruppo, finalmente stabile nella sua formazione. E Roger the Engineer da dove spunta fuori?

Agli appassionati, però, come capita spesso il titolo sembra troppo anonimo; mentre in America si rimedia con Over Under Sideways Down, in Europa qualcuno inizia a chiamarlo Roger the Engineer. La spiegazione è talmente semplice da evocare il rasoio di Occam: Roger l’ingegnere è effettivamente Roger Cameron, l’ingegnere di suono del disco.

La caricatura in copertina, invero inguardabile, è opera del chitarrista Chris Dreja e lo ritrae. Tutto qua.

Più complessa è la storia degli Yardbirds, band nata sull’onda della corsa agli strumenti nella Gran Bretagna degli anni Sessanta; la stessa da cui nascono Beatles e Rolling Stones, per intenderci. Gli Yardbirds fanno parte della nidiata blues, anche se non saranno mai puristi del genere, e vengono alla luce nel 1962.

Il gruppo è il risultato della fusione di due band di adolescenti: la Metropolis Blues Band e i Suburban R&B. Nella prima militano Keith Relf e Paul Samwell-Smith; nella seconda Chris Dreja, Jim McCarty e Anthony Top Topham. In ordine diverso, alcuni dei cinque sono anche compagni di scuola. Nel 1963, quando i Rolling Stones godono già di una piccola fama, gli Yardbirds aprono una loro serata al Crawdaddy.

I cinque animali da cortile (questo vuol dire Yardbirds, anche se Mike Bongiorno li chiamerà a Sanremo gallinacci) si fanno notare. Giorgio Gomelsky, proprietario del locale, li ingaggia come band titolare e li prende sotto la sua protezione come manager.

Come detto, però, i ragazzi sono molto giovani, al punto che Topham frequenta ancora la scuola superiore. Anthony ha un buon tocco da solista, ma i genitori si impuntano che non deve trascurare gli studi e lo obbligano a ritirarsi. “Non penserai mica che dagli Yardbirds possa mai uscire un chitarrista di successo?” forse gli dicono. Bene, dopo di lui nella band suoneranno Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page.

Topham, che è scomparso esattamente tredici giorni dopo Jeff Beck, suonerà ancora in diversi progetti e avrà una vita piuttosto avventurosa. Così il chitarrista ricorda quei giorni:

Allora avevo solo 15 anni, tre o quattro anni meno degli altri, e non c’era modo che i miei genitori mi permettessero di uscire cinque o sei sere a settimana per suonare, anche se stavo già portando a casa il doppio di quanto guadagnasse mio padre. Frequentavo la Epsom Art School e loro volevano che la prendessi sul serio. Eric Clapton era la persona più ovvia per rimpiazzarmi. Più tardi, non mi pentii di aver lasciato perché si erano allontanati dal blues che mi interessava. Anche se fossi rimasto con loro per diventare professionista, penso che me ne sarei andato più tardi per gli stessi motivi di Eric.”

La dichiarazione di Topham fa uno spoiler: Eric Clapton, giovane e inquieto, porta la band alla notorietà locale e poi se ne va. E se ne va esattamente dopo For Your Love, primo grande successo del complesso, ma che lui ritiene troppo commerciale. Alla fine la crema emerge sempre e Clapton avrà una carriera eccezionale, ma la decisione rimane comunque azzardata.

Al posto di Eric i ragazzi vorrebbero Jimmy Page, che è già una star tra i chitarristi da sessione. Jimmy però declina: alcuni dicono per non lasciare il lavoro sicuro da session man (il famoso posto fisso), altri che non vuole urtare la sensibilità delicata di Clapton. Jimmy ci tiene però a rimanere in buoni rapporti con la band e rilancia facendo un nome e un cognome: Jeff Beck.

Beck è un illustre sconosciuto, ma Page come sempre vede lontano. I primi due album in cui appare Jeff sono in coabitazione con Clapton, visto che utilizzano materiale vecchio e nuovo. In For You Love Beck appare in tre brani: in uno suona anche una sega elettrica, a dimostrazione di essere già uno sperimentatore. In Having a Rave Up è sua la chitarra di tutta la prima facciata.

E siamo al 15 luglio del 1966, con l’uscita di Roger the Engineer o, insomma, come volete chiamarlo.

L’attacco fa subito pensare a cosa passasse per la testa a Eric Clapton quando accusò gli Yardbirds di essersi svenduti al pop. Lost Woman è un blues coi fiocchi, col basso di Samwell-Smith in grande evidenza. Il lavoro di Jeff Beck è encomiabile. Il chitarrista, sopra una ritmica che va come un treno, lavora a lungo sugli accordi, con ampio uso del feedback; manca un vero assolo, ma il suo sound anticipa molto hard rock degli anni successivi.

Il punto debole, va detto, è come spesso succede con gli Yardbirds, la voce di Keith Relf. Il suo timbro e la sua forza sono inadatti alla crescente potenza della band, tanto che Relf pare più efficace con l’armonica.

Over, Under, Sideways, Down è un pezzo ancora ampiamente reminiscente del primo beat degli Yardbirds. La particolarità è nel riff orientaleggiante della chitarra di Beck, all’epoca particolarmente a suo agio con qualsiasi cosa suonasse fuori dai canoni, se non addirittura strambo.

The Nazz Are Blue è un altro affondo di puro blues. Si tratta praticamente di una rilettura della celebre Dust my Broom di Elmore James; le differenze stanno nel testo, nel curioso turnaround che Beck usa alla fine delle strofe e nella chitarra che non viene suonata con la slide. Il pezzo è una grande vetrina per Jeff, che troviamo – caso quasi unico – anche alla voce. La sua prestazione vocale spiega meglio di un trattato perché Beck non sia mai diventato anche un vocalist.

La sua chitarra è però eccezionale. Perfettamente a suo agio col blues canonico, gioca però con le dodici battute, alternando frasi in puro stile Clapton a passaggi molto più sperimentali. È un Beck ancora acerbo, ma che già evidenzia la sua nervosa propensione a non ripetersi.

I Can’t Make Your Way è un pezzo beat con tanto di armonie vocali. Diciamolo pure, non è certo un brano irresistibile, anche se la chitarra di Beck lavora da par suo sullo sfondo. Si torna al blues con Rack My Mind, pezzo che ricorda molto le atmosfere di Howlin’ Wolf, quello di Killing Floor.

La voce di Keith Relf è davvero poca cosa per un brano del genere, sovrastata in modo schiacciante da una sezione ritmica assai potente. Jeff Beck, ormai pienamente alle redini del complesso, si ritaglia un assolo di grande efficacia.

In questa parte centrale Roger The Engineer perde un po’ di compattezza e coerenza. Farewell è un brevissimo intermezzo che lascia un po’ spaesati per quanto è fuori tema; Hot House of Omagararshid, che apre la seconda facciata, è un’inspiegabile – ma tutto sommato riuscita – incursione nella musica sudamericana.

Uno strumentale a ritmo di samba con coretti che sembrano usciti da un film di Bud Spencer e Terence Hill; Jeff’s Boogie è ancora uno strumentale, stavolta votato al blues e, come da titolo, al boogie. Jeff era un grande appassionato di rock’n’roll, quello di Scotty Moore e qui ha l’occasione di rendere omaggio al genere.

Lo fa con una serie di trucchi e virtuosismi che sfiorano il parossismo, anticipando un po’ lo stile futuro di Roy Buchanan, il miglior chitarrista sconosciuto d’America. Roger the Engineer si trascina verso la fine con la tipica disomogeneità degli album degli Yardbirds. He’s Always There è un bel brano, sospeso tra il beat degli Zombies e una certa durezza strumentale che anticipa i Cream.

Relf è sicuramente più a suo agio e Jeff Beck concede un po’ di spazio anche ai suoi compagni di band, sebbene la parte di chitarra in dissolvenza ricordi la sua ingombrante presenza. Turn into Earth è una bella ballata, lenta e dall’incedere maestoso, che fa un po’ quello che faceva Still I’m Sad nel disco precedente. Forse, però, non con la stessa efficacia.

What Do You Want è un veloce rock’n’roll con echi di Bo Diddley e della nascente psichedelia americana. La potenza e la precisione della sezione ritmica fa ancora oggi pensare a come questi ragazzi siano un po’ sottovalutati, se si pensa che vengono citati quasi sempre solo per i chitarristi che sono passati tra le loro fila.

Roger the Engineer si chiude con Ever Since the World Began, una sorta di lento beat con suggestioni psichedeliche. A un certo punto il pezzo cambia completamente, trasformandosi in una cavalcata tra soul e gospel non proprio efficace.

Roger the Engineer è ritenuto da molti il miglior album degli Yardbirds, a testimonianza di una band che non ha mai sfruttato del tutto le grandi potenzialità. La sensazione, infatti, è quella di un complesso che non ha una vera direzione, problema forse addirittura acuito dall’eclettica e un po’ discontinua personalità di Jeff Beck.

Dopo Roger the Engineer ci sarà ancora tempo per un bel lavoro, Little Games, con Jimmy Page alla chitarra. Per un periodo Jeff Beck e Page suonano addirittura insieme, in una line-up da sogno che dura pochi mesi; un infortunio di Beck, forse, o più probabilmente incompatibilità di carattere, portano all’uscita del chitarrista.

Dopo Little Games la band si sfalderà, con la gestione del nome che rimarrà nelle mani di Jimmy Page. Il chitarrista saprà bene cosa farne, tanto che dalle ceneri degli Yardbirds nasceranno prima i New Yardbirds e poi i Led Zeppelin.
Il resto è storia nota.
Anzi, leggenda.

— Onda Musicale

Tags: Eric Clapton, Led Zeppelin, Jeff Beck, Jimmy Page, Yardbirds
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