In primo pianoMusica

Portishead, gli antieroi che con “Dummy” segnano il suono anni ’90

Beth Gibbons

Gli anni Novanta vengono quasi sempre ricordati per il grunge americano e l’ondata brit-rock inglese. Eppure, il movimento che influenza di più la musica che verrà dopo è il trip-hop. I Portishead sono tra gli alfieri del movimento.

Portishead è anche il nome di una cittadina vicina a Bristol, la cui scena dà vita al trip-hop, ed è il posto dove è nato Geoff Barrow, fondatore della band con Beth Gibbons. Bristol è una città a un paio d’ore di treno da Londra, vessata da un clima tipicamente britannico che non inneggia certo alla sempiterna allegria.

Bristol, però, fin dagli anni Ottanta vanta una scena musicale in fermento, che si differenzia dal resto del paese. Tra Pop Group e The Wild Bunch, i musicisti della città sono avvezzi a mischiare tra loro ingredienti che sulla carta stridono; funk, reggae, dub, free-jazz, ma anche il punk.

All’inizio dei Novanta a qualcuno viene in mente di fondere il tutto con l’hip-hop, genere sulla cresta dell’onda, l’acid-jazz e le colonne sonore noir. In particolare, a farsi apripista della scena sono i Massive Attack e Tricky. I Portishead, però, saranno la band che darà grande popolarità al genere e che, in un certo senso, ne travalicherà i già ampi confini.

La definizione trip-hop viene dall’hip-hop, di cui spesso sfrutta le basi e rallenta il beat, e trip, parola inglese che allude al viaggio nell’accezione mentale.

Barrow è un buon polistrumentista che si è già fatto un nome come produttore di remix e collaborando sempre al mixer sia con i Massive Attack che con Tricky. Ama in particolare le colonne sonore di Lalo Schifrin, Bernard Hermann e John Barry (quello di 007 e di Attenti a quei due); Geoff è però un onnivoro della musica. Compone ricercate basi hip-hop, ama la dance di Moroder e il soul atmosferico di Isaac Hayes.

Quando incontra Beth Gibbons, una cantante esile, sconosciuta e timidissima, prendono forma i Portishead. Beth sembra uno scricciolo, ma nasconde una voce potente e incredibilmente duttile ed espressiva; è capace di passare dalla grinta di Janis Joplin alla classe di Billie Holiday nello spazio di una strofa. Poco più tardi, qualcuno la soprannominerà la Billie Holiday venuta dallo spazio.

I Portishead non hanno ancora registrato nulla quando si cimentano in un bizzarro progetto. Assecondando la passione per i film noir e di spionaggio degli anni Sessanta e per le loro colonne sonore, realizzano un cortometraggio, To Kill A Dead Man. La breve pellicola è ovviamente musicata da loro stessi, che vi recitano anche; la Go! Beat, un’etichetta discografica, li mette sotto contratto.

Nel breve volgere di qualche stagione, nell’autunno del 1994, i Portishead sono pronti per il debutto con l’album Dummy. Alla produzione c’è Dave MacDonald, che si cimenta pure con batteria e drum machine; decisivo per l’iconico suono di Dummy è però l’ingresso di Adrian Utley, chitarrista di grande spessore di estrazione jazz.

Il disco è uno dei lavori più importanti degli anni Novanta, vende benissimo e coglie forse alla sprovvista la band, proverbialmente riservata e poco incline ai meccanismi dello star system. Anche se chiamare band i Portishead è quasi riduttivo; siamo infatti di fronte a un progetto, parola oggi spesso abusata, che coinvolge non solo la musica ma anche la grafica, rendendo il complesso creatore di atmosfere più che di semplici canzoni.

Il suono si basa sull’idea di musica di Barrow e Gibbons. Ovvero, prendere brani ideali per film e innestarli su basi hip-hop rallentate e ipnotiche. Per farlo i due fanno ampio uso di campionamenti e scratch, due tecniche ereditate dal rap e tipiche del trip-hop. La chitarra di Utley traccia trame da spaghetti western, mentre la voce di Beth cala il carico da undici: intensa, straziante, sensuale e sempre intonatissima.

L’album si apre con Mysterons, pezzo che chiarisce subito le coordinate.
Un basso lentissimo e ipnotico, lo scratch e una batteria potente fanno da sfondo alla meravigliosa voce di Beth Gibbons. La melodia è spettrale, a dipingere il desolato quadro di malinconia sottolineato dal theremin e dalle trame di Utley.

Soprattutto, però, i Portishead si impongono subito come creatori di melodie fantastiche e di atmosfere cinematiche. Il finale è da brivido, quasi da film horror.

Alla seconda traccia la band centra già il capolavoro.
Sfruttando un sample di Lalo Schifrin, Danube Incident del 1968, Sour Times manda l’ascoltatore al tappeto. È ancora l’inimitabile voce di Beth Gibbons a caricarsi sulle spalle la responsabilità maggiore, quella di emozionare il fruitore. Degna di nota è però anche la chitarra di Utley, che traccia linee da brivido sulle corde basse.

Il chitarrista si ritaglia anche un assolo perfettamente organico alla trama del pezzo, mentre Gibbons affonda il coltello nella ferita con una prestazione straziante nel ritornello.
Strangers parte con un beat ossessionante per poi abbandonarsi ad atmosfere più jazz, forse portate in dote da Utley. Ancora una volta la voce di Gibbons fa la  differenza, in un pezzo che è un continuo alternarsi di atmosfere.

It Could Be Sweet sfoggia una base tra hip-hop e lounge, con languidi tocchi d’organo. Beth sfoggia la carta del soul sensuale per dare profondità e melodia a una base che suona quasi come un inquietante loop. Non si discosta molto da queste atmosfere Wandering Star, con un maestoso basso dub che incede, lo scratch e qualche nuance blues che fa capolino.

It’s a Fire tira forse un po’ troppo la corda nel rallentare il beat e coi vocalizzi di Beth. Tuttavia, il tappeto d’organo e l’incedere quasi gospel ne fanno comunque un buon numero. Numb propone ancora il lamentoso scratchare di Barrow su una base di grande atmosfera; Beth Gibbons miagola da par suo mostrando di nuovo la sua inarrivabile espressività.

Con Roads tornano pienamente le atmosfere liquide da film noir; pare di essere sospesi tra Twin Peaks e una spy-story. La lunghissima introduzione crea subito suggestione ed è un gioco per Beth entrare al momento giusto. Ancora una volta la voce dell’inglese traccia una melodia coi fiocchi, punteggiata dal wah-wah di Utley e dal crescendo degli archi.

Pedestal e Biscuits sono due pezzi che accentuano l’elemento hip-hop e la parte ritmica, ora con afflato quasi jazz, ora quasi da club. I brani fanno però da apripista a quello che forse è il pezzo più cult dell’intero lavoro, un capolavoro che consegna i Portishead alla leggenda al primo colpo. Parliamo, ovviamente, di Glory Box.

La canzone si basa sul sample di Ike’s rap II di Isaac Hayes contenuto nell’album Black Moses del 1971. La stessa sequenza di basso e archi viene utilizzata lo stesso anno in un brano di Tricky, Hell is Around the Corner, con risultati decisamente inferiori. Glory Box è una dolente rivendicazione dell’essere donna, ancora attuale e cantata con inimitabile struggimento da Beth Gibbons.

Il brano, lento e ipnotico, è impreziosito dall’assolo di chitarra distorta di Adrian Utley, ma in generale le parti della sei corde sono eccezionali in tutta la durata della canzone. Per chi volesse apprezzare a pieno l’eccezionale talento della Gibbons, consigliamo il live a New York, dove la cantante sembra davvero far l’amore con le note.

Nel finale Glory Box ospita anche un altro brevissimo sample, quello della versione jazz di Hey Jude di Clarence Wheeler and The Enforcers del 1970.

Dummy ottiene grande riscontro e contribuisce in maniera decisiva a portare al grande pubblico il verbo del trip-hop. Oltre a vendere benissimo, si aggiudica il Mercury Prize e prelude al lavoro di altre band come i Morcheeba, che coloreranno il genere con nuove contaminazioni.

I Portishead, però, non hanno fretta di replicare e si prendono tre anni prima di replicare con il disco eponimo del 1997. Si tratta di un altro ottimo lavoro che contiene All Mine, un altro pezzo forte del repertorio. Nello stesso anno i Portishead tengono un memorabile live al Roseland Ballroom di New York con un’orchestra di 33 elementi e a una sezione di fiati.

Dalla serata viene tratto il live Roseland NYC Live. Poi il silenzio, per dieci anni, seguito da Third del 2008. Da lì dei Portishead si perdono le tracce di nuovo fino al 2022, quando suonano allo O2 Academy Bristol in favore delle vittime della Guerra in Ucraina.

— Onda Musicale

Tags: Janis Joplin
Sponsorizzato
Leggi anche
Gli anni 90 e la nostalgia di una grande occasione
Macadamia con il nuovo singolo “Prendi fiato”