Tutti sanno che, nello sviluppo della personalità, il fattore ambientale conta quasi quanto quello genetico. Paul Butterfield nasce nel 1942 a Chicago, proprio quando la windy city sta per diventare la culla del blues elettrico.
Paul Butterfield è figlio di un avvocato di Chicago e certo i quartieri dove si suona il blues autentico, quello dei neri arrivati dalle piantagioni per cercare fortuna, non sono il suo habitat naturale. Butterfield, però, ha nel sangue la passione per la musica e soprattutto per quella miscela di blues rurale ed elettricità che sta nascendo.
Negli anni della giovinezza Paul è combattuto tra questa pulsione per una musica che non è certo quella dei bravi ragazzoni americani e l’ambiente molto più adatto per lo sport. Studia il flauto, ma in breve il richiamo del blues ha la meglio. Ricorda Elvin Bishop, da subito chitarrista della sua band, che Paul all’inizio suonava per lo più la chitarra.
Un giorno, di punto in bianco, Paul si avvicina all’armonica, strumento povero per eccellenza del blues. È il colpo di fulmine: in pochi mesi Butterfield diventa un virtuoso dello strumento. Per Elvin Bishop è la definizione vivente del genio: non ha veri maestri e esperienza, eppure in pochi mesi Paul diventa uno degli armonicisti migliori di Chicago.
Assieme a Bishop, Paul entra nel giro dei bluesman che contano. I nomi fanno venire i brividi: Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Buddy Guy. E poi ci sono i grandi maestri dell’armonica, da Junior Wells a James Cotton. La Paul Butterfield Blues Band nasce nel suo primo embrione con il leader all’armonica e che canta con la sua voce efficacissima nel genere; alla chitarra c’è Elvin Bishop, non un virtuoso ma un solido conoscitore della musica del diavolo.
La sezione ritmica arriva dritta dalla band di Howlin’ Wolf. Jerome Arnold al basso e Sam Lay alla batteria. Con questa formazione la band si fa apprezzare per tutta Chicago e diventa gruppo di casa al Big John’s. La cosa fa notizia: il club è da sempre votato al folk ed è la prima volta che scrittura come house band un complesso con elementi di colore.
Non bisogna dimenticare che siamo negli caldi della lotta contro la segregazione razziale, in un paese e in una città che ha i suoi bei problemi anche oggi. Manca ancora però un ingrediente per rendere la Paul Butterfield Blues Band il più importante gruppo del blues bianco americano.
Al Big John’s suona spesso Michael Bloomfield, chitarrista ricciolino e cagionevole dalla tecnica prodigiosa in qualsiasi variante del blues. Spesso Paul e Mike suonano assieme in jam improvvisate e una sera a sentirli c’è Paul Rothchild, un produttore della Elektra. L’uomo convince Paul a far entrare Michael nella band e – già nel 1964 – il complesso prova senza successo a registrare un primo album.
La botta vera di popolarità, però, arriva con una polemica ancora oggi leggendaria. Sono gli anni in cui l’America riscopre le sue radici folk e in cui Bob Dylan fa impazzire il pubblico alternativo con le sue ballate per voce e chitarra. Al Newport Folk Festival Paul Butterfield e soci vengono ingaggiati per aprire il concerto. Alan Lomax, ricercatore e filologo del folk e del blues anteguerra, li tratta in modo quasi sprezzante.
Il pubblico è invece diviso: il blues ad alto potenziale elettrico dei ragazzi di Paul Butterfield non è certo quello che si aspetta, ma non tutti sembrano disprezzarlo. Bob Dylan, che medita il passaggio al rock elettrificato, li ingaggia come backing band. Sarà un’esibizione breve quanto chiacchierata. Dopo Newport la Paul Butterfield Blues Band, nel bene e nel male, è sulla bocca di tutti.
Con l’aggiunta alle tastiere di Mark Naftalin esce finalmente l’album di debutto, eponimo. Tra tanti standard e qualche blues originale che però suona come se l’avesse composto Muddy Waters, il disco non sfonda in classifica ma diventa comunque un piccolo caso. Mai musicisti bianchi avevano suonato il blues con tale convinzione e pertinenza.
Paul Butterfield diventa per la musica americana quello che John Mayall è per quella britannica negli stessi anni. Michael Bloomfield, che contende la scena al bandleader, è un po’ l’Eric Clapton di Chicago.
Passa un anno, Sam Lay si fa da parte per problemi di salute e lascia il posto a Billy Davenport. Il gruppo fa ormai base in California e assorbe dalla scena di San Francisco i nascenti ma già vigorosi aneliti psichedelici. È il momento di piazzare il disco della leggenda: esce East-West.
L’album ritrae in copertina il sestetto come fosse una versione in anticipo dei Blues Brothers, quasi tutti con gli occhiali da sole da duri e perfettamente integrati a livello multi-etnico.
Il lavoro si apre con un classico di Robert Johnson, riproposto da ogni bluesman che si rispetti, Walkin’ Blues. Si tratta di una versione perfettamente nei canoni del Chicago Style, con l’ossatura del brano classico vestita di elettricità. Paul Butterfield se la cava egregiamente sia alla voce che all’armonica; Bloomfield si prende le luci per un breve assolo, mentre la slide di Bishop punteggia la parte ritmica.
La band sta però solo scaldando i muscoli, come nella successiva Get Out of my Life, Woman, brano definito proto-funk di New Orleans dagli stessi musicisti. Particolarmente in evidenza il piano di Naftalin, con un riff che pare omaggiare Hey Bulldog dei Beatles e si produce in una lunga parte solista.
La successiva I Got a Mind to Give Up Living gioca l’inevitabile carta dello slow blues. Il testo è tradizionale e parla senza mezzi termini e in modo assai discutibile di un uomo che vuole farla finita. Poco male, per fortuna i tempi sono cambiati e un uomo che tenta di manipolare la compagna minacciando il suicidio oggi non sarebbe proponibile. La parte musicale è però da brivido.
Le dodici battute rallentate sono lo sfondo ideale per le incredibili evoluzioni di Michael Bloomfield. Mike è al massimo della forma, in quel periodo ascolta un sacco di jazz e musica modale e i suoi fraseggi ne risentono positivamente, svisando in modo imprevedibile dalle classiche pentatoniche. Il suono, poi, è saturo al punto giusto e ricorda molto quello coevo di Clapton.
Uno degli slow blues più belli della storia, senza dubbio.
All These Blues è un brano più canonico, un classico blues con l’armonica di Butterfield sugli scudi. Paul è sicuramente uno degli strumentisti più importanti del blues, per la sua tecnica e per l’uso non comune dell’amplificazione, ma anche per il suo gusto e la sua misura. E, particolare da non sottovalutare, per essere stato il primo bianco a portare alla ribalta l’armonica nel rock assieme a Mayall.
Work Song chiude la prima parte di East-West ed è la cartina di tornasole della crescita della band. Il classico jazz di Nat Adderley è reso in una lunghissima versione ricca di spunti jazzistici e psichedelici. Il lavoro di Bloomfield in particolare è leggendario e fa capire perché il buon Mike venga ancora oggi ritenuto una spanna sopra ai suoi colleghi, almeno tecnicamente.
Bloomfield ricostruisce alla chitarra elettrica i fraseggi jazz originali, estraendo dalla sua Gibson dei suoni mai sentiti; la sei corde percorre i sentieri poco battuti del jazz, si arrampica in bending che la fanno urlare e piangere. In una parola, emoziona, e lo fa ben al di là dei virtuosismi inutili di molti guitar hero che verranno.
Notevoli anche il lavoro all’organo di Naftalin, la parte suonata da Bishop – anche se Bloomfield rimane irraggiungibile – e la sezione ritmica.
Il secondo lato si apre con Mary, Mary, di nuovo un blues abbastanza tradizionale che offre la possibilità di ascoltare la potenza vocale di Butterfield. Il brano è uno di quelli più sbilanciati sul versante del rock che allora impazza a San Francisco. Two Trains Running è ancora un classico del repertorio di Muddy Waters, in cui Butterfield non fa rimpiangere il vocione del bluesman.
La ritmica è vorticosa e il lavoro di Bloomfield alla chitarra è semplicemente meraviglioso.
Never Say No è un lentone d’atmosfera in cui Paul Butterfield gioca quasi a fare il crooner. Il tappeto è ancora una volta da fumoso locale jazz, ma il brano che arriva dopo tende a fare dimenticare questo pezzo.
Si tratta di East-West, lunghissimo strumentale che dà il titolo all’intera raccolta. Come detto, all’epoca Michael Bloomfield è preso dall’ascolto del jazz di Coltrane, della world music di Ravi Shankar e di tante altre ispirazioni. Per il quasi quarto d’ora di East-West la chitarra in stato di grazia di Mike sciorina lunghe frasi basate sulle scale modali.
Probabilmente il pubblico rock di allora non ha mai sentito nulla del genere, quello del blues figuriamoci. Mentre la sezione ritmica aumenta la velocità in modo ipnotico, Michael pare quasi in trance ed è inarrestabile nel dare tonalità indiane al tutto. La seconda parte del brano è più rilassata, con tanto di percussioni e un suono della chitarra liquido che pare anticipare di parecchio quello che farà Santana anni dopo.
Paul Butterfield si ritaglia il suo spazio all’armonica, ma tecnicamente il suo strumento non è il più adatto a seguire i saliscendi umorali di Bloomfield. I tredici minuti di East-West segnano forse il primo vero picco lisergico della musica psichedelica. L’influenza del brano sulle jam dei Grateful Dead e dei Quicksilver Messenger Service è incalcolabile. Da allora, per anni, la scena sarà piena di brani dilatati che inseguono senza raggiungere la magia di questo pezzo.
East-West si conclude così.
Allora sembra impossibile, ma forse il brano non chiude solo il disco ma anche la fase migliore della Paul Butterfield Blues Band. Bloomfield, da sempre piuttosto fragile fisicamente e vessato dalle dipendenze, dopo una massacrante tournée inglese, lascia. Non viene sostituito, sebbene sia chiaro a tutti che Elvin Bishop non può essere alla sua altezza.
Paul Butterfield, da parte sua, concentra la musica più sulla sua voce che sulle cavalcate psichedeliche. Diventa un grande personaggio della scena alternativa e si esibisce nei grandi festival, da quello di Monterey a Woodstock. Bloomfield conoscerà ancora il successo con gli Electric Flag e col mitico Super Session con Al Kooper e Stephen Stills.
Il chitarrista, però, conoscerà anche il fondo, ridotto a suonare per colonne sonore di film porno e morirà, giovanissimo, in circostanze misteriose. Forse suicida. Paul Butterfield, dopo una carriera altalenante, lo seguirà pochi anni dopo con una morte simile, per una overdose accidentale di codeina.
La fine è triste, ma il percorso è stato pieno di meraviglie come East-West. Quelle per cui ancora oggi i nomi di Paul Butterfield e Michael Bloomfield brillano nel firmamento del rock e del blues.