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Crosby e Nash, Stills e Young: le due strane coppie

Negli anni settanta c’è stato un periodo nella vita dei Crosby, Stills, Nash & Young in cui i rapporti da sempre burrascosi tra i membri hanno portato alla strana combinazione di due sottogruppi. Ma c’è qualcosa nella Stills-Young Band e nei Crosby & Nash, che vale la pena salvare?

Breve storia dei CSNY: come siamo finiti qui

L’anno è il 1969. Il supergruppo nato dalla (faticosa) sinergia artistica tra Crosby, Stills & Nash e il già acclamato Neil Young si esibiscono insieme per la seconda volta, con una certa inquietudine, presso un certo Festival di Woodstock. Un sodalizio che faceva sperare in bene dopo il successo di Déja-Vu, il loro primo album come quartetto. 

Che si sarebbe concluso con quell’unico album e sarebbe deragliato in una delle storie musicali a meno esclusione di colpi del rock classico: e di uno di quei colpi, una doppietta a sorpresa che avrebbe anticipato molta della maretta a venire, andiamo a parlare quest’oggi. 

Ovvero di quella volta che Crosby, Stills, Nash e Young si sono divisi a metà e hanno formato due sottogruppi distinti

Queste le fazioni in gioco: da una parte Neil Young, la stella, il genio maledetto, e il motore musicale e tecnico del quartetto Stephen Stills. Dall’altra parte Graham Nash, la cosa più vicina a una popstar nel quartetto originale, a bilanciare la simpatia e i demoni interiori di David Crosby. Il risultato sono la Stills-Young Band, con il loro unico album del 1976 Long May You Run, e il duo Crosby & Nash con tre dischi all’attivo. Daremo particolare attenzione all’ultimo dei tre, Whistling Down the Wire, essendo stato pubblicato lo stesso anno di Long May You Run e rappresentando, come quello, la chiusura del loro percorso artistico. Ma bando alle ciance: come sono

Long May You Run: Stephen Stills e Neil Young

Nessuno si aspetti, decidendo di provare uno qualunque di questi album, di trovare dei capolavori degni di Déja-Vu. Di Long May You Run, l’unico album della Stills-Young Band. Esso anzi pare fuori posto già la copertina, un poster di bufali che puzza di propaganda colonialista il cui spirito non ci azzecca niente con il vigore ribelle che definisce da sempre lo spirito dei CSNY. Ci azzecca, certo, con le estetiche d’acchito conservatore del rock dell’epoca (buongiorno, Lynyrd Skynyrd), ma tradisce sin da subito un intento che, soprattutto per Neil Young, non si accorda con la loro poetica. Sembra provenire non tanto da un intento artistico genuino, ma da un incontro casuale tra i due vecchi amici che, dopo un paio di bicchieri di quello buono, hanno deciso di fare un album insieme. 

Niente di male in ciò, sia chiaro, ma il fatto che possano non significa necessariamente che debbano, e soprattutto che ci riescano. I pezzi, presi da soli, non funzionano: abbiamo l’eclettico ed estroso Neil Young accoppiato con Stephen Stills, che nei CSNY suonava tutti gli strumenti e manteneva l’album sul suo percorso sicuro. Una mina vagante e un mirino di ultima generazione: che giungono, inseriti in un ambiente dove fanno l’uno da polo opposto all’altro, a soffocarsi creativamente a vicenda. 

Long May You Run è, a dispetto del titolo, un album stanco

È come se Stills – sarà facile prendersela con Stills, pace all’anima sua – avesse annusato il successo del movimento easy listening dell’epoca e avesse cercato di adattare ad esso, a colpi di martello, il sound inconfondibile del suo focoso collega. Ci sono gli elementi – le chitarre acustiche, gli assoli di armonica, le performance sommesse, le tematiche pseudo-esistenziali tanto care all’americana – ma non c’è una sostanza, un messaggio di fondo dietro alle loro riflessioni. Ironico che nella title track ci sia una frecciatina ai Beach Boys, quando persino Mike Love avrebbe da ridire dinnanzi a cotanta ovvietà. 

Ed è possibile che anche i due esecutori se ne fossero accorti, poiché molte delle tracce di Long May You Run, dalla title track alla soporifera Midnight On The Bay, contengono quantità ingenti di riempitivo che ai loro contenuti non aggiunge nulla. Ripetere all’infinito il titolo di una canzone allunga la durata, ma non mantiene la sostanza. Non è, naturalmente, tutto un disastro. In alcuni dei tentativi, tipo le striscianti chitarre d’ispirazione prog che aprono l’ansiosa reminiscenza al centro di Fountainebleau, le ripetizioni hanno alle spalle abbastanza mordente da mantenere l’interesse a galla. È uno dei momenti in cui il fiero Neil Young ritorna riconoscibile, e dei quali si sente davvero il bisogno. 

Non si dica che, avendo fatto parte di una band di protesta, Young e Stills siano costretti a cantare per forza canzoni militanti e non gli sia permesso di spaziare in qualche altro ambito. Diciamo solo che, quando si ascolta una Make Love To You, una traccia smooth jazz uguale a un migliaio di altre (specie all’epoca) in cui Neil Young ci prova con una donna dicendole “il tuo corpo diceva tutto, so che tu sapevi”, risulta difficile pensare che lui si sentisse a suo agio. 

Whistling Down The Wire: Graham Nash e David Crosby

Molto più immediata, per fortuna, la sinergia tra Nash e Crosby: Nash è da sempre stato il poptimist del gruppo, quello col maggiore orecchio per i ritornelli. La mano che conduce Whistling Down The Wire è soprattutto la sua: sua è la penna dietro a buona parte dei testi, sua la mano dietro molti strumenti. Da questo deriva una maggiore armonia a livello sonico – basta paragonare uno qualunque degli assoli di armonica di Long May You Run con quello di Taken It All, in cui le voci alla Simon&Garfunkel degli esecutori impreziosiscono il tono addolorato, per capire la differenza. Nash ha le sue idee, e per Crosby è facile andargli dietro. Anche qui si sente l’incedere dell’easy listening e delle affettazioni blues-jazz tanto amate negli anni settanta, e anche qui si storce un po’ il naso per gli elementi più pungenti di cui si sente la mancanza. 

Where Will I Be, ad esempio, porta la firma di Crosby e Nash insieme, e la fortunata combinazione del minimalismo downtempo e delle grida strazianti in stile gospel cristallizza perfettamente in musica le emozioni difficili di quegli anni

C’è un equilibrio artistico in gioco, un desiderio palpabilmente condiviso di arrivare da qualche parte con quel sodalizio, o per lo meno di concludere come si deve quella parte della loro carriera in attesa dei nuovi trend. E anche nelle tracce che a livello emotivo non funzionano, vuoi perché semplicemente spente, vuoi perché sospese in una sonorità che non le completa – Foolish Man vuole essere un crollo personale, ma gli alti e bassi di tempo e i momenti di vuoto la trasformano in un pasticcio lounge di quelli che si mettono la sera nei bar – ci si può almeno contentare delle voci degli esecutori. 

Se c’è qualcosa di positivo da dire sulla faccenda, anche se con dolore, è che la complicata situazione mentale vissuta da David Crosby è proprio quella che tende a sbocciare nella musica migliore. Anche nel discusso album di ritorno a fine anni ottanta, American Dream, sarebbe stata la sua Compass ad attirare buona parte dell’approvazione critica. E forse, in un ambiente più ristretto e privo delle liti intestine che da sempre caratterizzano i CNSY, può trovare abbastanza spazio espressivo per mettere in ordine la sua testa e trarre qualcosa di buono dalla sua difficile situazione. Dovunque si trovi adesso, deve ritenersi fiero di quello che ha lasciato. 

In entrambi i casi, gli album paiono fermi a un work in progress

Qualcosa che assomiglia a Crosby, Stills, Nash & Young, ma inizia a perdere la sua forma quando ci si mettono gli occhiali. E nel mezzo emerge una storia cautelare sull’amicizia, e sugli effetti negativi delle compagnie per cui non si sente più l’effetto – e su come, in certi momenti, sia meglio lasciar andare.

— Onda Musicale

Tags: Neil Young, David Crosby, Stephen Stills, CSN&Y
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