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British Blues, la nascita del nuovo rock britannico (Parte 1)

British Blues, il capolavoro del genere

Tra i tanti movimenti che caratterizzano gli anni Sessanta in Gran Bretagna, quello che risulta forse più importante per la nascita del nuovo rock è il British Blues. Una breve storia.

Per tracciare la storia del British Blues dobbiamo riassumere un po’ la situazione del pop britannico in quel favoloso decennio. Londra, dopo la rinascita degli anni Cinquanta seguita alla tragedia della II Guerra Mondiale, diventa la vera capitale del mondo occidentale. Più ancora di New York, Londra è la città dove essere, quella da cui partono le tendenze. Nasce la Swingin’ London.

La prima grande rivoluzione giovanile della musica è partita qualche anno prima negli Stati Uniti, con l’esplosione del rock’n’roll. Un manipolo di artisti e produttori, ibridando il country bianco e le prime pulsioni elettriche del blues nero hanno creato una formula digeribile per gli adolescenti americani.

Il rock’n’roll non ha mai sfondato completamente in Gran Bretagna, troppo selvaggio e istintivo per gli artisti britannici, più cerebrali. Al di là del rock blando e inoffensivo di Cliff Richard, in terra d’Albione trionfa ancora il datato pop degli adulti. La rivoluzione giovanile, in quelle lande, arriva col beat.

Inutile dire che i Beatles saranno il motore di quella rivoluzione, seguiti da altre decine di band in quello che sarà chiamato Mersey Sound. Una miscela di ingenuo ed energico rock’n’roll, soul e pop british. Il blues, come si vede, è un elemento che manca completamente, se non per qualche pepita che rimane nel setaccio che ha dato vita al rock’n’roll originale.

In Inghilterra, però, un piccolo seme germoglia fin dagli anni precedenti al secondo conflitto mondiale. Attraverso diversi canali, dagli appassionati di jazz e big band fino ai tanti soldati afro-americani di stanza nel paese durante e dopo la guerra, un po’ di blues filtra e si fa strada. All’inizio è il jazz che attecchisce, coi grandi gruppi di fiati modellati sulle big band alla Benny Goodman.

Il blues è conosciuto attraverso le influenze che, da sempre, esercita sul jazz stesso. Quando, negli anni Cinquanta, esplode la moda dello skiffle, con Lonnie Donegan come portacolori, per il blues acustico si apre uno spiraglio. Lo skiffle mescola jazz, blues, country e folk; la strumentazione e la tecnica sono talmente semplici che band di giovanotti che lo suonano nascono a ogni angolo di strada.

I ragazzi, forse per la prima volta nella storia, acquisiscono voce in capitolo nella società; il marketing capisce subito che col boom economico anche i giovani avranno potere d’acquisto e il mercato discografico inizia a diventare un gioco da ragazzi, nel vero senso del modo di dire.

Lo skiffle attecchisce in particolare sulle rive del Mersey, a Liverpool, tanto che tutti i futuri componenti dei Beatles ci avranno a che fare. Gli stessi Quarrymen, prodromo della band di Liverpool, nasce come complesso skiffle. Tra i musicisti che imparano strimpellando la chitarra su pezzi come Rock Island Line c’è però anche Alexis Korner; il nome con cui entriamo nel vivo della narrazione.

Alexis è frutto di un meltin pot che oggi farebbe gridare i complottisti reazionari: i suoi genitori sono austriaci, lui nasce a Parigi ma cresce a Londra con la musica dei soldati afroamericani. Inoltre, si nutre col jazz di Chris Barber, gloria inglese delle big band. Quando mette su un complesso di skiffle, in cui suona la chitarra e canta, con lui c’è Cyril Davies, l’altro grande nome degli albori del British Blues.

I due si esibiscono come coppia, sulle orme di Sonny Terry & Brownie McGhee, grande duo americano di country blues. Sono anche gli anni dell’American Folk Blues Festival, tour itinerante di musicisti blues americani organizzato da due tedeschi, Horst Lippmann e Fritz Rau. Per alcuni è una sorta di operazione alla Buffalo Bill con gli indiani d’America. I grandi bluesman neri vengono portati in tour quasi come elementi esotici.

Fantastici musicisti, per lo più di blues acustico, dopo una vita in miseria, girano il mondo poco pagati e diventano gli idoli dei giovani alternativi. Il blues fa definitivamente breccia, ed è curioso che la rinascita del genere arriverà più dall’Europa e dal British Blues che dall’America.

Alexis Korner negli anni Sessanta

Alexis Korner e Cyril Davies, si diceva. Korner ha una buona mano specie alla chitarra acustica, ha studiato i bluesman neri e interiorizzato accordi e lick. Davies è invece un virtuoso dell’armonica, strumento povero per eccellenza, e ha una voce potente adattissima al genere. Alla fine degli anni Cinquanta, però, in Gran Bretagna arriva in tour Muddy Waters, col suo poderoso blues elettrico di Chicago.

È quello che ci vuole per dare la definitiva spinta al British Blues. All’inizio i musicisti sono allibiti, abituati al delicato sound acustico e naif del blues che conoscono. Muddy è selvaggio, urla come un ossesso e si serve di una potente amplificazione. Howlin’ Wolf, Buddy Guy, Magic Sam e i tanti che lo seguiranno sono ancora più esplosivi e sfruttano al limite le potenzialità soliste della chitarra.

Davies e Korner formano i Blues Incorporated, formazione duttile e in continua evoluzione che propone un blues elettrico ben più sanguigno e potente di quanto si sia mai sentito. Non solo, con nuance più rhythm and blues nascono decine di band che all’inizio suonano solo cover e che saranno seminali per tutto il rock a venire.

Hanno nomi che danno i brividi, a sentirli oggi.
Sono gli Yardbirds, i Kinks, i Manfred Mann, i Pretty Things, la Graham Bond Organisation, Georgie Fame e Zoot Money. Ma anche gli Animals da Newcastle, i Moody Blues, lo Spencer Davis Group e i Them. Soprattutto, però, da questa nidiata nascono i Rolling Stones.

I Blues Incorporated diventano una sorta di università del blues da cui escono decine di talenti che daranno vita a tante di queste band. Nelle loro fila passano, magari brevemente, Jack Bruce e Ginger Baker dei Cream, Long John Baldry, Graham Bond, Ronnie Jones, Danny Thompson e Dick Heckstall-Smith. Ma anche Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts e Brian Jones, praticamente i Rolling Stones quasi al completo; Robert Plant e Jimmy Page dei futuri Led Zeppelin, Rod Stewart e John Mayall.

Importantissima per il successo della scena è la nascita di diversi locali che propongono il nuovo blues britannico, spesso proprio a opera di Davies e Korner. Il Good Earth Club e il Blues and Barrelhouse Club, alla Roundhouse di Londra; l’Ealing R&B Club a Ealing Broadway. Ma anche e soprattutto il Marquee Club di Wardour Street. Inizialmente nato come locale jazz, il Marquee diventa passaggio obbligato per i giovani cultori del blues, tanto da finire anche nel titolo di alcuni cult live del genere.

I Blues Incorporated al Marquee. Korner alla chitarra, Cyril Davies al microfono.

La gloria di Davies e Korner, i veri fondatori del British Blues, dura però poco. Davies è sfortunato: il 7 gennaio del 1964, quando sta per compiere trentadue anni, muore di leucemia dopo una breve malattia. Quello che era considerato il miglior armonicista blues britannico non potrà assistere agli incredibili sviluppi del genere.

La carriera di Korner sarà invece lunghissima. In tempi in cui le cose cambiavano in modo incredibilmente veloce, viene però presto soppiantato dai tanti giovani che crescono proprio nella sua band.

John Mayall, per esempio, da Manchester, inizialmente un po’ staccato dalla scena, è destinato a diventare la punta di diamante del British Blues. Mayall è un polistrumentista con una sterminata – per quei tempi – collezione di dischi blues americani; la sua specialità è l’armonica, ma vanta anche una splendida voce con un falsetto degno di Robert Johnson.

Quello che però fa la differenza a suo favore è l’atteggiamento. Mayall ha una dozzina d’anni in più dei giovani rampanti, ma una mente molto più aperta di tanti di loro. John non è interessato a diventare una star, tutto sommato non ne ha neanche il phisique du role; è un purista del blues ma è disposto a interpretare e cavalcare tutte le nuove tendenze.

Il vero British Blues viene canonizzato proprio da John. La sua ricetta è composta in parti uguali da classicismo, parti acustiche e parti elettriche, pezzi standard ma anche inediti. Soprattutto, però, nei Bluesbreakers di Mayall nasce la figura del guitar hero del blues, l’archetipo che tornerà in tutto il blues rock, l’hard e addirittura il metal, fino ad oggi.

L’esempio più scintillante del nuovo dio della chitarra, sacerdote del British Blues ed eroe dei ragazzini della Swingin’ London è, ovviamente, Eric Clapton. Tuttavia, Slowhand rimane con Mayall per un periodo brevissimo e tormentato. La causa è soprattutto nel suo carattere volubile e incline a eccessi e colpi di testa.

Un periodo tanto veloce quanto intenso, che consegna alla storia Bluesbreakers with Eric Clapton, capolavoro del genere che darà le coordinate a tonnellate di dischi modellati sul capostipite. Mayall ha la lungimiranza di dividere senza nessuna gelosia la gloria con Clapton, permettendo così a una musica adulta come il blues di raggiungere il target che allora – per la prima volta – conta, quello dei teen-ager.

Le sue delicatezze non servono però a stabilizzare l’ego di Eric, ma forse è una fortuna. Anziché ripetere la formula fino allo sfinimento, Clapton darà la sferzata hard che porterà alla creazione di tutto il rock duro successivo coi Cream. Mayall, dal canto suo, eredita il ruolo di università del blues da Korner e lancia musicisti come Peter Green, i Fleetwood Mac e Mick Taylor.

Non solo, Mayall sperimenta di tutto, dalla psichedelia californiana alla commistione col jazz; dal blues acustico in solitaria a quello progressivo. Dal 1966, insomma, il British Blues è la vera rivoluzione della musica inglese. Nella prossima puntata andremo ad analizzare le band e gli artisti che usciranno da quell’irripetibile covata da cui sboccerà tutto il rock degli anni Settanta.

— Onda Musicale

Tags: Eric Clapton, The Beatles, Rod Stewart, Led Zeppelin, Robert Johnson, Yardbirds, John Mayall
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