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Suede e “Coming Up”, una pietra miliare del Britpop

Coming Up dei Suede

Quando nell’aprile del 1993 arriva nei negozi di dischi Suede, il debutto eponimo, la band di Brett Anderson è già una piccola celebrità. Almeno per Londra e per gli appassionati britannici.

Già, perché i Suede, pur non avendo ancora pubblicato nulla, sono già stati sulla copertina di Melody Maker col pomposo titolo di The Best New Band in Britain. Non solo, col senno del poi, Suede viene da molti considerato come il primo vero album dell’ondata Britpop (o Britrock che vogliate).

La Gran Bretagna, dopo aver impiegato quasi dieci anni per assorbire il colpo dell’invenzione americana del secolo, il rock’n’roll, può ben dire di essersi ripresa. Fin dall’avvento dei Beatles, infatti, si può dire che qualsiasi nuovo movimento rock abbia avuto le sue radici in terra d’Albione.

Dal beat al british blues, dall’hard rock al progressive, fino all’era punk e new wave, passando per l’heavy metal, tutto nasce per vent’anni intorno a Londra. Forse solo la breve stagione psichedelica attecchisce più oltreoceano, seppure non manchino band britanniche di livello. Questo fino agli anni Novanta, quando l’America pare riprendere le fila del discorso col grunge, forse l’ultima grande intuizione rock.

Ed è proprio all’inizio dell’ultimo decennio del millennio che la Gran Bretagna viene percorsa da nuovi fremiti. Da Bristol parte l’onda meno rumorosa ma lunghissima del trip-hop, mentre a Londra fioriscono una serie di band che sembrano riportare le lancette agli inizi degli anni Sessanta.

I Suede nascono attorno a due figure carismatiche, Brett Anderson e Justine Frischmann, coppia musicale e nella vita. Brett è l’archetipo del frontman di classe: fascino sottile tra Alain Delon e Bryan Ferry, buone doti compositive e istrioniche e una voce particolare che a tratti ricorda David Bowie. Ai due si unisce subito Mat Osman, bassista.

I tre hanno vent’anni o poco più e passano il tempo a suonare il repertorio dei loro idoli, che sono Bowie, i Roxy Music, i Cure e gli Smiths. Quando decidono di fare sul serio, capiscono subito che né Brett e né Justine suonano la chitarra abbastanza bene e mettono un annuncio su NME. Si presenta Bernard Butler, che con Anderson darà vita per un breve periodo alla tipica coppia compositiva britannica.

Se state pensando che manca un batterista, non avete torto. All’inizio viene impiegata una drum machine, poi, quando la situazione si fa più seria, viene ingaggiato Simon Gilbert; il musicista è caldeggiato nientemeno che da Ricky Gervais, il celeberrimo comico che all’epoca è pienamente invischiato nel mondo della musica e che per un po’ è manager del gruppo.

Quando Brett e Justine si lasciano, per un po’ la band tenta di convincersi che le cose possano andare avanti così, in precario equilibrio. Quando la giovane, che fonderà il seminale complesso delle Elastica, inizia a frequentare Damon Albarn, frontman dei rivali Blur, le cose arrivano a saturazione.

Paradossalmente, almeno secondo Brett, la fatale estromissione di Frischmann dai Suede è proprio ciò che fa scaturire la chimica magica del successo. Il nome della band comincia a circolare nell’ambiente e varie etichette se la contendono. Da allora tutto procede velocemente. Il sound matura dando vita a qualcosa di unico nel panorama Britpop, mescolando il defunto glam con l’estetismo degli Smiths e i dettami del nuovo movimento.

Suede, il primo lavoro, va alla grande e vince il Mercury Prize. Già all’indomani, però, i Suede perdono un altro pezzo: Butler se ne va attratto dall’idea non troppo felice della carriera solista. La band assolda in quattro e quattr’otto Richard Oakes, valido chitarrista di appena diciassette anni e batte il ferro finché è caldo col sophomore Dog Man Star.

Il disco è molto più adulto e dark del debutto e il pubblico pare non apprezzare del tutto. Siamo nel 1994 e l’esplosione dei Pulp e – soprattutto – della rivalità tra Blur e Oasis pare spezzare le gambe sul nascere ai Suede. Eppure, nel 1996, sfruttando l’onda del movimento che essi stessi hanno contribuito a creare, arriva il trionfo di Coming Up.

I Suede, per Coming Up, ampliano la formazione con l’arrivo di Neil Coding alle tastiere e si assesta con gli storici Anderson e Osman, il batterista Simon Gilbert e Richard Oakes ormai pienamente a regime come chitarrista. Il Britpop, che spesso viene definito anche Britrock, è qui totalmente sbilanciato sul versante pop.

Il sound di Coming Up si spoglia infatti degli spigoli rock dei precedenti e sposa una serie di accorgimenti che ne decretano il successo nelle classifiche. Le melodie, azzeccate e appiccicose al punto giusto; l’aura di bello e maledetto di Brett Anderson, che pare raggiungere qui un equilibrio irripetibile.

E le canzoni, soprattutto. Un pugno di dieci pezzi di cui – incredibilmente – la metà viene estratta come singolo. La produzione è di Ed Buller, nonostante questi avesse cercato di smarcarsi. Buller, dopo le precedenti esperienze, ritiene i membri dei Suede troppo litigiosi e la band cerca, tra gli altri, anche Brian Eno. Discutendo con Anderson, Buller si rende però conto che le nuove idee per canzoni più immediate collimano precisamente con le sue e accetta di sedersi in consolle.

I Suede sono in quel periodo molto ispirati dal glam degli anni Settanta, in particolare dai T. Rex di Marc Bolan. Il gruppo ascolta The Slider e Tanx all’infinito, soprattutto il primo. Buller, del resto, confessa che la sua aspirazione con i Suede è quella di realizzare una sorta di The Slider degli anni Novanta.

Il processo creativo non marcia più sul binario Anderson e Butler, col secondo che mette in musica i testi di Brett, ma diventa un lavoro di gruppo. Brett, al proposito, evoca la meritocrazia: “Non importava la fonte da cui arrivava qualcosa, l’importante era che fosse buona.”

Coming Up si apre con Trash, canzone che è scelta anche come primo singolo dell’album. I Suede mettono subito le nuove carte in tavola con un pezzo dalla melodia accattivante. La voce citofonota di Anderson è al massimo della forma, soprattutto nella sua espressività e nel suo falsetto cangiante. Gli arrangiamenti sono più asciutti rispetto al passato, con una spruzzatina di elettronica che di lì a poco prenderà la mano alla band.

Un brano che proietta oggi l’ascoltatore nella tipica atmosfera nineties britannica; un periodo in cui l’era della Swingin’ London pareva rivivere e in cui anche band modeste come gli Ocean Colour Scene potevano sperare di vendere milioni di copie.

Filmstar è invece l’ultimo singolo estratto da Coming Up, a oltre un anno dal primo. La canzone, più dura nell’arrangiamento, sfoggia un ritornello psichedelico che naviga dalle parti dei Beatles ma è marchiato indelebilmente dagli anni Novanta. Lazy è un altro singolo: a quante band è capitato di aprire un album con tre singoli messi così, in fila?

Si tratta di una ballata che si regge su una esile melodia e sugli intarsi chitarristici di Richard Oakes, musicista poco citato ma dotato di buona inventiva. Siamo anche qui dalle parti di un Britpop con robuste iniezioni di glam e di suoni psichedelici.

By the Sea rallenta ulteriormente il ritmo con un’introduzione tastieristica molto d’atmosfera. La canzone era stata scritta da Brett Anderson già ai tempi del primo disco e la necessità della tastiera è alla base dell’inserimento in organico di Coding. Pur non essendo scelta come singolo, la canzone non ha troppo da invidiare ai pezzi più famosi del complesso.

She, con la voce filtrata di Anderson e un bel crescendo che sfrutta degli archi quasi da trip-hop, narra in modo ironico del mondo delle supermodelle. Il brano finisce schiacciato dal successivo, Beautiful Ones, forse il vero cavallo di battaglia dei Suede.

Il pezzo, sorta di caricatura degli yuppies inglesi, è il singolo perfetto e quello che finisce per dare visibilità alla band in tutto il mondo. La melodia è azzeccatissima, la voce di Anderson degna dei grandi predecessori del glam. Insomma, il tipico esempio di quando la ricetta si amalgama in modo talmente perfetto da dare una somma che vale più dei singoli ingredienti.

Fatalmente, dopo una metà così pregna di pezzi forti, la qualità cala un po’. Starcrazy è una full immersion in certi suoni laccati anni Ottanta con un ritornello piacevole ma forse fin troppo ruffiano; Picnic by the Motorway è una curiosa ballata dall’incedere sghembo che ricorda a un tempo i T. Rex, Bowie e Bryan Ferry. Forse troppa carne al fuoco per la riuscita completa del brano.

The Chemistry Between Us è il brano più lungo della raccolta, poco oltre i sette minuti. L’andamento lento e flessuoso del brano potrebbe far pensare a una canzone romantica; in realtà, si tratta di una riflessione di Anderson sulla droga e sul vuoto di rapporti basati esclusivamente sulla comune tossicodipendenza.

Coming Up si chiude con l’ennesimo singolo, Saturday Night. Il brano non conquista del tutto la critica, che lo ritiene mancante della tipica magia dei Suede; non solo, la canzone viene ritenuta da alcuni un po’ troppo simile alla celebre Song for Guy di Elton John. Eppure, pur con la sua melodia di facile presa e col tributo a Elton John, rappresenta la chiusura ideale di Coming Up.

Il brano è rilassato, la voce di Brett in primo piano, il ritornello – quello farina del sacco dei Suede – memorabile. Insomma, un finale che è una vera carezza per gli ascoltatori e che offre un esempio fulgido dei ganci melodici della band.

Coming Up è un album che forse non è invecchiato benissimo, come succede sempre coi classici che sono ancora in quel limbo tra il classico e il contemporaneo. La critica scrive giustamente che se Dog Man Star era il Diamond Dogs dei Suede, Coming Up può essere considerato il loro Ziggy Stardust. Un lavoro colorato, oscenamente pop – per dirla coi Baustelle – e che ancora oggi è un inno alla vita e all’estetismo dandy della band.

E i Suede, che fine hanno fatto?
Sono ancora ben attivi e combattono con noi; dopo essersi fatalmente sciolti, si sono rimessi assieme nel 2010. Non una reunion da vecchi nostalgici, attenzione: da allora i Suede hanno pubblicato alcuni lavori che rivaleggiano in qualità con quelli dei tempi d’oro. E che, se solo esistesse ancora un mercato discografico reale, farebbero parlare. E noi, infatti, ne parleremo. Ma un’altra volta.

— Onda Musicale

Tags: Blur, David Bowie, Oasis, The Cure, T – Rex, Ziggy Stardust
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