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I Queen e la loro magia immortalati negli scatti di Peter Hince

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L’incontro con la band, la generosità di Freddie Mercury, l’ascesa dopo Bohemian Rhapsody. Il fotografo che ha vissuto a fianco dei Queen ora li celebra con una mostra.

Che cosa ama mangiare una leggenda? Quante ore dorme? Che cosa guarda alla tv? Riportare sul pianeta Terra chi è abituato alla stratosfera è operazione affascinante e complessa. Perché può essere svolta solo da chi ha avuto il privilegio di vivergli accanto. Peter Hince è uno di questi: per dodici anni è stato l’ombra dei Queen. Ha vissuto a fianco di Brian May, Roger Taylor, John Deacon e soprattutto di Freddie Mercury. Ha assistito alla nascita, nota dopo nota, di Bohemian Rhapsody, ha respirato l’aria pesante dello studio di registrazione di A Night at the Opera, ha sfiorato la mitica canottiera bianca che Freddie indossava durante il Live Aid. Ratty, così era chiamato Hince, è stato dal 1975 al 1986 road manager della più grande band della storia del rock. 

Ma è stato anche un ottimo fotografo: la mostra Queen Experience | Peter Hince, negli Archivi di Stato di Torino dal 6 aprile al 16 luglio, illustra l’epopea del gruppo inglese attraverso 60 scatti e centinaia di memorabilia e documenti originali (come l’asta del microfono di Mercury o i costumi del video di Radio Gaga). Hince conosce qualche parola di italiano, lo stretto indispensabile. Ma quando c’è da raccontare i Queen, sceglie la sua lingua madre.

Perché ha scelto di lavorare come roadie per una rock band?
«Perché ero giovane, non avevo abbastanza talento per diventare un calciatore o una rockstar. Ed era meglio che lavorare in fabbrica».

Com’era la sua giornata tipo?
«Dipende se eravamo in tour o in studio a Londra. Ogni giorno era diverso dall’altro: in tournée mi trasformavo in una sorta di maggiordomo inglese. Il mio compito era quello di seguire soprattutto Freddie e John come un’ombra fino in camerino. Dovevo occuparmi del pianoforte e della chitarra, sistemare gli amplificatori, preparare i drink e gli asciugamani, organizzare i costumi di scena».

Ricorda la prima volta che ha incontrato Freddie Mercury e gli altri membri della band?
«Certo, era il 1973. Avevo finito di lavorare con David Bowie. Era l’epoca di Ziggy Stardust. Il mio ingegnere del suono aveva aperto una società che collaborava con artisti come Lou Reed, David Hall, Iggy Pop. Ricordo che con i Mott the Hoople stavamo facendo un tour in Inghilterra e i Queen erano il gruppo di supporto. Durante le prove, era novembre e faceva un freddo cane, i quattro si presentarono in studio vestiti di raso e seta. Freddie correva su e giù come se fosse davanti al pubblico. Nessuno aveva mai sentito parlare di loro. A un tratto mi sono chiesto: “Ma da quale pianeta arrivano?”. Si capiva che avevano una grande autostima: erano certi che prima o poi sarebbero diventati grandi».

C’è ancora quello studio di registrazione?
«No, oggi c’è un supermarket. Era un ex cinema che Emerson, Lake and Palmer acquistarono per trasformarlo in studio di registrazione. Ci hanno suonato dai Led Zeppelin a Paul McCartney con i Wings, ai Roxy Music. Quando ci sono entrato recentemente ho cercato di individuare il punto in cui avevo incontrato per la prima volta Freddie».

“I Queen non volevano andare al Live Aid, ma Geldof li convinse. Non potevano contare su effetti speciali, così puntarono tutto sul talento. La loro performance fu allestita in 20 minuti ma fu leggendaria”

E lo ha trovato?
«Sì, era all’altezza dello scaffale dei surgelati, ma sono certo che Freddie avrebbe preferito fosse nel corner dello champagne…». (ride)

Da quel novembre del ’73 sono passati 50 anni. Lei però ha iniziato a collaborare con loro due anni più tardi.
«Sì, durante la lavorazione di A Night at the Opera».

Ricorda qualche aneddoto di quel periodo?
«Mi sembrava tutto assurdo. Ognuno registrava in uno studio diverso. In uno c’era Freddie che provava la voce, in un altro Brian con la chitarra, in un altro ancora Roger e John al mix… Il disco non era ancora finito e già si parlava del tour, c’era un’energia incredibile. Ricordo che quando riuscii ad ascoltare per la prima volta alcune note di Bohemian Rhapsody pensavo fossero l’intro del loro live. Quando poi l’abbiamo ascoltato tutti insieme mi sono detto: “Ok. Non è affatto male. E poi mi pagano 40 sterline a settimana. Vediamo quanto durerà…”».

È durata oltre dieci anni.
«Sì. Bohemian Rhapsody finì al primo posto della hit parade inglese e il tour era sempre sold out. Dopo quel disco, i Queen ascesero a un livello diverso. Nulla per loro, e per me, sarebbe più stato come prima».

Che cosa li rendeva così speciali?
«Una combinazione di fattori. Erano grandi lavoratori, si mettevano in gioco tutti i giorni. Ripetevano come un mantra: “Più lavori duro, più fortuna attrai”. La loro era una chimica particolarissima: insieme erano complementari, funzionavano alla perfezione. A volte li vedevi litigare ma era sempre perché volevano raggiungere il massimo. Non si accontentavano mai. Mi hanno insegnato molto, soprattutto a credere in me stesso».

Che tipo era Freddie Mercury?
«C’erano due Freddie: l’animale da palcoscenico con una voce incredibile e l’altro più privato, timido, uno che non amava stare troppo in mezzo alla gente e non disdegnava passare la serata davanti alla tv. A volte poteva sembrare quasi scortese: ma quando sei così famoso e hai tutto quel successo, la pressione rischia di diventare insostenibile».

Qual era il suo più grande pregio meno conosciuto?
«Era molto generoso, in particolare con il suo tempo che regalava a chiunque. Era sempre ottimista e incoraggiava tutti a migliorare. Soprattutto John Deacon, che spronava continuamente a scrivere testi».

Qual è stata invece la più grande falsità raccontata sul suo conto?
«Certe notizie pubblicate sui tabloid sull’uso di droghe e sulla sua vita dissoluta. Si è esagerato. Certo nel corso della sua vita si è divertito. Ma molto è stato sovrastimato».

È vero che Freddie era un asso del ping pong?
«Sì, è vero. Amava tennis e ping pong. Era un tipo competitivo e voleva vincere sempre. Ricordo che al Musicland studio di Monaco di Baviera avevamo un tavolo da ping pong in corridoio. Una volta si avvicinò e mi disse: “Ti sfido giocando con la mano sinistra. Tanto ti batto anche così”. Era incredibile. Per lo Scarabeo, poi, aveva una vera ossessione. Un giorno arrivò addirittura in ritardo al soundcheck per una partita».

Chi era il suo cantante preferito?
«Adorava la voce di Aretha Franklin. Somebody to Love in fondo era un tributo a lei. Come musicista a tutto tondo aveva una passione per John Lennon e per Jimi Hendrix».

Live Aid, nel 1985, è stato un momento determinante nella carriera dei Queen. Che ricordi ha di quel giorno?
«All’inizio i Queen non ci volevano andare. Ma Bob Geldof insistette così tanto che alla fine li convinse. Freddie e gli altri studiarono la scaletta nel minimo dettaglio. Non potevano contare su effetti speciali, così puntarono tutto sul talento. La loro performance fu allestita in 20 minuti. Ma divenne leggendaria».

Che cosa le ha lasciato l’esperienza con i Queen?
«Mi porto dietro tante cose: dai viaggi con la band da Londra a Monaco all’essere stato accanto a Freddie mentre scriveva Crazy Little Thing Called Love. L’ultima volta che l’ho visto è stato un anno prima che morisse. Eravamo al party dei 20 anni dei Queen. Io ero con John Deacon e sua moglie. Freddie a un tratto mi vede e mi raggiunge stringendomi in un abbraccio fortissimo».

C’è un sogno che Freddie non è riuscito a realizzare?
«Difficile rispondere. So che quando iniziò a lavorare da solista collaborando con Montserrat Caballé era molto felice. Probabilmente avrebbe voluto continuare questo percorso. Penso volesse pubblicare un album solo con voce e pianoforte. Se ci fosse riuscito, sarebbe stato un capolavoro».

(di Germano D’Acquisto – foto di Peter Hince – pubblicato su vanityfair.it)

— Onda Musicale

Tags: Freddie Mercury/Roger Taylor/Bohemian Rhapsody
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