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Muddy Waters ed “Electric Mud”: il blues che insegue la psichedelia

Muddy Waters negli anni 60

Negli anni Sessanta, dopo essere stato un genere musicale ghettizzato per gran parte della sua storia, il blues diventa la materia prima per gran parte del rock. Muddy Waters è in questo panorama uno dei nomi più noti e rispettati.

Muddy Waters è in quel tempo uno dei grandi miti del blues. La sua notorietà è eguagliata forse solo da Howlin’ Wolf e John Lee Hooker. Muddy è stato uno degli inventori del primo sound di Chicago, nato dall’intuizione di elettrificare la musica dura e pura del Delta, il cosiddetto downhome.

Dopo decenni in cui il blues si è sviluppato con grande lentezza, rimanendo ancorato alle sue radici, gli anni Sessanta sono anni di rivoluzione. Muddy assapora il successo inizialmente grazie al revival del folk americano, va in tour in Gran Bretagna e si gode la popolarità del giovane pubblico e le coccole della critica impegnata.

Il suo blues elettrico, fatto della sua vocalità potente, della presenza scenica istrionica e di un uso della chitarra essenzialmente ritmico e votato a qualche svisata slide, invecchia però velocemente. Nella sua Chicago si afferma il sound detto West-Coast con chitarristi come Buddy Guy, Otis Rush, Magic Sam e Jimmy Dawkins.

I nuovi eroi amplificano la chitarra in modo più potente e propongono lunghi assoli che infiammano le platee; un po’ lo stesso accade di là dall’oceano, dove i ragazzi inglesi inventano il British Blues. Eric Clapton in testa, ma anche Jeff Beck, Jimmy Page e decine di band sconvolgono le dodici classiche battute con interminabili cavalcate soliste e un sound decisamente più raffinato.

Influenzato soprattutto dal suono hard blues dei Cream e dai primi approcci di Jimi Hendrix, e sollecitato dalla Chess, il vecchio Muddy Waters decide di entrare nell’arena per sfidare i giovani epigoni con le stesse armi. Probabilmente ad attirare Waters, cinquantacinquenne che ha vissuto ai margini della scena per quasi tutta la vita, è la prospettiva di monetizzare in modo sostanzioso la sua popolarità.

Proposito giustissimo e ampiamente condivisibile. Il progetto è quello di far leva sul suo status di grande del blues, attorniarlo di giovani musicisti dediti ai nuovi suoni, e conquistare il pubblico più fresco. La scelta cade sulla band di soul psichedelico dei Rotary Connection, da poco formatasi.

Il complesso è titolare del primo disco della Cadet Concept Records, costola della Chess nata dal volere di Marshall, figlio del fondatore Leonard Chess. Sono proprio quelli del film Cadillac Records. Ma il progetto a cui Marshall tiene di più si chiama Electric Mud e – nei suoi piani – ha per protagonista proprio Muddy.

“Mi è venuta l’idea di Electric Mud per aiutare Muddy a fare soldi. Non era per imbastardire il blues. Era come un dipinto, e Muddy sarebbe stato nel dipinto. Non era per cambiare il suo suono, era un modo per farlo arrivare a quel mercato.”

Marshall, va detto, non è certo un filantropo: facendo fare i big money a Muddy è ovvio che ci guadagnerà lui per primo. L’idea è quella di riciclare il vocione temibile di Waters nel rock blues psichedelico. Per ottenere il giusto risultato, Muddy deve tenere le sue mani lontane dalle chitarre, essendo il suo sound lontanissimo dalla nuova ondata psichedelica. Il risultato è un album dal suono esplosivo, ma che fa subito indispettire il decano del blues, abituato da sempre a fare da solo o con l’accompagnamento della sua fedele band.

Il fatto di avere una backing band totalmente diversa e solo in studio, crea un altro inghippo. Waters, che fa dei concerti la sua attività principale, è così impossibilitato a portare in scena i pezzi dell’album; il sound potente, le chitarre distorte e piene di wah-wah, la batteria pirotecnica non possono essere replicate dai bravissimi musicisti di Muddy.

Il bluesman è felice degli incassi – il disco vende benissimo – ma amareggiato dal punto di vista artistico.

“Per cosa diavolo hai un disco se non lo puoi suonare quando esce? Sono così stufo di questo…  Se devi avere grandi amplificatori, wah-wah e attrezzature per far dire alla tua chitarra cose diverse, beh, diavolo, non puoi suonare il blues.”

L’accoglienza riservata a Electric Mud è controversa. In America il suono psichedelico abbinato alla voce di Muddy fa storcere il naso alla critica, che vede una forzatura e un’operazione filologicamente scorretta. In Gran Bretagna, dove all’epoca si dettano le mode, il disco è generalmente apprezzato. Electric Mud, in quel momento, diventa però il lavoro più venduto di Waters.

A sua detta, però, l’album vende ma il pubblico non ne è soddisfatto. Anche i suoi colleghi si dividono. Per Buddy Guy, Muddy Waters non riesce ad avere lo stesso feeling con il sound psichedelico; Jimi Hendrix, al contrario, si dice apprezzi, tanto da trarre ispirazione da Herbert Harper’s Free Press News, uno dei brani più sperimentali.

Ma, ascoltato dopo oltre cinquant’anni, come suona Electric Mud?
Sorprendentemente, il disco non è invecchiato affatto male; certi suoni, abbinati al poderoso talkin’ blues di Muddy, paiono quasi anticipare l’hip-hop più radicale, quello dei Public Enemy per intenderci.

Certo, una leggera dissonanza tra Muddy e la band si intuisce. Waters sembra quasi imbarazzato nel prendersi le luci senza farsi scudo della fedele Telecaster percossa ritmicamente.

L’attacco dell’album è per due cavalli di battaglia del vecchio Muddy: I Just Want to Make Love to You e I’m Your Hoochie Coochie Man. La prima subisce un trattamento psichedelico da manuale, con la chitarra di Pete Cosey che ricama in modo indolente per tutto il brano; Muddy si limita – si fa per dire – a proporre la parte vocale come se la base fosse quella solita.

Il risultato è leggermente straniante. Pare quasi che alla pista vocale originale sia stata aggiunta una base con tutti i crismi della psichedelia. Anche la celeberrima Hoochie Coochie Man dà un po’ la stessa impressione. Tra chitarre effettate e un sassofono quasi free jazz, il vocione di Muddy non sembra esattamente a suo agio. La resa è però molto interessante e il sound ancora oggi moderno.

Con Let’s Spend the Night Together il mondo pare andare letteralmente alla rovescia. Il pezzo è infatti targato Jagger e Richards. E così, dopo che i Rolling Stones hanno saccheggiato il repertorio originale di Waters per anni, ora è Muddy a registrare una loro cover. L’attacco è in puro stile Cream, col riff che ricorda Sunshine of Your Love e la chitarra che cita apertamente Clapton.

Muddy Waters sembra sempre leggermente in affanno nel cantare su una base del genere, ma qui il sound è talmente fresco che la riuscita è quasi totale. Upchurch e Cosey non sono certo né Clapton e né Hendrix e si sente, ma nell’insieme il brano può dirsi riuscito. Con She’s Alright e Mannish Boy siamo ancora davanti a due pezzi da novanta del bluesman.

La prima, con un basso potente e in evidenza, pare uscire direttamente da un live di Hendrix, almeno per la parte ritmica. La voce di Waters, invece, è distante anni luce da Jimi: in meglio. Herbert Harper’s Free Press News è forse il brano più sperimentale dell’intero set.

La chitarra sfoggia suggestioni orientali, debitrici forse al Bloomfield della Paul Butterfield Blues Band; la voce di Waters è sempre spettacolare, ma non troppo a suo agio su una base quasi funk. La successiva Tom Cat è ancora molto sbilanciata sul versante psichedelico, mentre la conclusiva The Same Thing è più attinente al blues di Chicago classico.

Una versione rallentata e con una chitarra ficcante di uno dei pezzi più coverizzati di Muddy Waters.

Alla fine, il giudizio su Electric Mud non può che essere ambiguo e rimanere sospeso. Si tratta di un’operazione furba e coraggiosa al tempo stesso, ma non completamente riuscita. Una vera curiosità, se si considera che il sound voluto dalla Chess imita pedissequamente la versione del blues inventata dai musicisti inglesi cercando di inseguire il vero blues. Un labirinto dove c’è da perdere la testa.

Lo stesso Muddy non ha mai avuto le idee troppo chiare su Electric Mud. Non sembra soddisfatto, ma quando l’anno dopo deve registrare After the Rain chiede espressamente a Pete Cosey lo stesso suono del disco precedentemente.

Anni dopo, però, nella sua biografia, pare aver cambiato idea: “Electric Mud era una merda. Quando è uscito, ha iniziato a vendere come un matto, ma poi hanno iniziato a rimandarli indietro. Dicevano: Questo non può essere Muddy Waters con tutta questa merda e tutto questo wha-wha e fuzztone.”

Ad apprezzare in toto Electric Mud, a sorpresa, saranno i primi grandi musicisti hip-hop, da Chuck D ai Public Enemy, ritenendo che le basi del disco anticipino la loro ritmica di trent’anni. L’etichetta tenta di replicare il successo facendo incidere un disco simile a Howlin’ Wolf, ma l’era del blues psichedelico dura il tempo di un raffreddore.

In Gran Bretagna i Cream sono roba vecchia dopo appena un paio d’anni: i ragazzi in breve impazziscono per l’hard rock e per il progressive. E lì, saggiamente, Marshall Chess sa che non può lanciare il vecchio Muddy Waters all’inseguimento. Proprio il ritorno alle radici, con la collaborazione di Johnny Winter, porterà a Muddy l’ennesima nuova giovinezza. Ma questa è tutta un’altra vicenda.

— Onda Musicale

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