Alla fine sono tornati: dopo cinque anni dall’ultimo album si ripresentano i Baustelle con Elvis, nono album in studio che rivoluziona in parte il loro sound.
Avevamo lasciato i Baustelle nel 2018 col secondo volume dell’Amore e la Violenza; i due album avevano rappresentato il ritorno a suoni più immediati e pop dopo un percorso autoriale che aveva avuto il culmine con Fantasma. “Oscenamente pop”, così aveva definito Francesco Bianconi quel suono ricco di elettronica e di reminiscenze degli anni Ottanta. Ora il ritorno con Elvis.
Arriva però per tutte le band che si cimentano col rock e col pop il momento di fare i conti con colui da cui tutto ebbe inizio, Elvis. I Baustelle, allora, lo omaggiano non solo nel titolo, ma anche con una rinnovata gamma di suoni che attingono molto dal soul, dal rock’n’roll e addirittura dal blues americano.
Un cambiamento che arriva un po’ a sorpresa e che non mancherà di dividere i fan, che per ora sembrano apprezzare la virata del complesso. Sì, perché in questi anni i componenti dei Baustelle non sono rimasti con le mani in mano. Complice anche la forzata cattività dovuta ai vari lockdown, specialmente Bianconi è parso un vulcano in continua eruzione, tra collaborazioni, dischi solisti e progetti letterari.
E, sul versante musicale, abbiamo assistito a un’evoluzione in direzione raffinato chanssonier, spesso lontanissimo dalle forme del rock e più vicino alla canzone d’autore francese. Anche Rachele Bastreghi ha trovato il modo di esordire come solista, con un album di buona fattura che non si allontanava troppo dai suoni dei Baustelle classici.
E allora, ecco che Elvis arriva come un fulmine a ciel sereno.
Un disco innanzitutto molto suonato rispetto all’elettronica dei precedenti, ma che non è un ritorno alle origini. Pare quasi un’evoluzione non tanto in avanti o all’indietro, quanto di lato, verso un universo che i Baustelle non hanno mai frequentato troppo, quello dei suoni vintage americani.

Per fare ciò, Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini si sono circondati di altri musicisti di studio con cui hanno trovato il giusto affiatamento, tanto che si può parlare di una band allargata. Troviamo così Alberto Bazzoli (piano e Hammond), Lorenzo Fornabaio (chitarra elettrica e acustica), Julie Ant (batteria e percussioni) e Milo Scaglioni (basso e chitarra).
Il sound, dicevamo. Leggendo queste righe si potrebbe pensare a una rivoluzione quasi eccessiva, ma per gli affezionati della band toscana non c’è da strapparsi i capelli. Elvis è un disco pienamente baustelliano, sia per i testi che tracciano brevi racconti di figure ai margini, conditi dalle consuete citazioni e riflessioni sulla vita, che per certi ganci melodici ormai proverbiali.
Tuttavia, Elvis suona allo stesso tempo diverso.
Le chitarre, con tanto di qualche assolo blueseggiante, sono in primo piano, e qua e là aleggiano i fantasmi di Dylan e addirittura dei Rolling Stones. Abbiam citato anche il soul, e infatti troviamo anche i fiati e nientemeno che qualche passaggio ai confini del gospel. Il risultato lascia al primo ascolto un po’ perplessi.
I singoli che hanno annunciato Elvis avevano contribuito a confondere le acque. Contro il mondo, il primo, è una tipica invettiva bianconiana verso una figura femminile che molti definirebbero radical chic, con un modo di dire un po’ logoro. Difficile pensare che non sia un testo un po’ personale, visto il malanimo che affiora tra le righe. Musicalmente il pezzo è però in pieno Baustelle style, con tanto di citazione da Common People dei Pulp, nume tutelare di Bianconi.
È poi arrivata Milano è la metafora dell’amore, pezzo dall’andamento sghembo da blues dylaniano. Tra la Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde, il pezzo è una dichiarazione d’amore verso Milano che alterna una parte iniziale piuttosto efficace a un ritornello non riuscitissimo.
Infine, pochi giorni prima del rilascio di Elvis, è uscita La Nostra Vita; tra i tre è forse il singolo meno caratterizzato. Aperto da un languido tappeto di Hammond e dalla voce sempre suadente di Rachele, il brano si apre poi in un ritornello alla Baustelle, di quelli definiti larger than life e che ha bisogno di qualche ascolto per essere apprezzato a dovere.
Eppure, proprio la diversità di questi tre brani è la giusta cartina di tornasole per prepararsi all’ascolto di Elvis. L’album, infatti, si dipana per dieci pezzi che hanno la loro croce e delizia proprio nel suonare tutti diversamente. Si evita la noia ma si ha a volte un po’ la sensazione di un lavoro non troppo equilibrato.
Elvis si apre con Andiamo ai rave, brano scritto ben prima dell’assurda polemica del governo su questo tipo di intrattenimento e che quindi non si richiama all’episodio. Il pianoforte e il basso in primo piano richiamano molto il Bob Dylan più rilassato e gli Stones dei primi Settanta.
Il testo è un’acuta riflessione sul divertimento a tutti i costi che spesso cela la difficoltà di affrontare i demoni interiori. È il cosiddetto FOMO (Fear of Missing Out), sindrome tipica dei nostri tempi, ancor più nel post lockdown. Il disturbo consiste nell’ossessivo timore di rimanere esclusi da qualche evento e porta a un rapporto compulsivo con social e tecnologia.
All’apertura seguono i tre singoli di cui abbiamo detto, poi si passa a Jackie, tipico racconto breve alla maniera dei Baustelle. Siamo in piena comfort zone per la band e per chi la ama. Un arpeggio fa da sfondo alla voce profonda e inconfondibile di Bianconi, prima che la canzone sfoderi tutta la sua potenza sonora.
La storia è quella di una drag queen, “di giorno lui, la notte lei”, come dice il testo. Un brano purtroppo molto attuale, apertamente e giustamente schierato contro l’omofobia. A livello musicale è forse il pezzo che piacerà di più a chi si aspetta il classico suono del gruppo ed è quasi perfetto, a eccetto forse di un ritornello leggermente sopra le righe.
Los Angeles è un altro ritratto di una figura ai margini e di disperazione con un andamento da veloce cavalcata rock. Siamo ancora in un terreno abbastanza frequentato per la band, tranne per il curioso ritornello che alterna le tipiche melodie della band con una parte che accelera improvvisamente.
La successiva Betabloccanti Cimiteriali Blues sfoggia innanzitutto un titolo bellissimo che rimanda a certi pezzi di Bob Dylan degli anni Sessanta. Anche l’andamento musicale si rifà al cantautore americano ed è all’insegna di un certo rock’n’roll con qualche filo pendente di blues. Il testo presenta una serie di immagini e figure surreali e taglienti, e anche qui il fantasma del vecchio Bob è ben presente.
Nel finale fa capolino addirittura un assolo di sax che fa sembrare di essere capitati in qualche disco di Springsteen e una parte abrasiva di chitarra che se anche fosse stata più lunga non ci sarebbe stato da ridire.
Ancora un titolo favoloso, Gran Brianza lapdance asso di cuori stripping club, per un altro racconto che non sfigura a livello letterario. Protagonisti una ballerina di striptease e un cliente che se ne innamora; sullo sfondo, l’annoiata provincia con tutti i suoi cliché tristemente reali.
Giunti qui, ci preme sottolineare una caratteristica tipica della scrittura della band e soprattutto di Bianconi, ovvero la salvifica assenza di giudizi morali sulle figure raccontate. Un approccio che solo le grandi penne hanno, e non ci limitiamo all’ambiente musicale.
Siamo agli ultimi due brani, due ballate che chiudono in modo intenso un disco che fin qui potrebbe sembrare leggero. Il Regno dei cieli è l’ennesima riflessione di Bianconi sul senso – se ci fosse – della vita. Una cavalcata tra ricordi e immagini di una vita passata, non sappiamo quanto autobiografica. La conclusione è che il regno dei cieli è nei piccoli momenti felici, magari nemmeno colti, e non nell’intera vita.
“Il regno dei cieli è il montaggio, non l’intero girato” è la frase chiave della canzone e forse del pensiero di Bianconi. La coda è all’insegna di una sorta di parte gospel che forse appesantisce un po’ un brano altrimenti perfetto.
La chiusura, come già capitato, è per quella che forse è la canzone più intensa del lotto e per la voce di Rachele che finalmente si prende le luci. Cuore è una piccola meraviglia con un arrangiamento salvificamente minimale per piano, chitarra acustica e archi.
La storia è quella di una donna che si rivolge, finalmente consapevole, alla sé stessa bambina. Quale sia il momento di questa riflessione si capisce solo nel finale, quando la voce svela che la donna sta precipitando dal quinto piano.
E allora qual è il giudizio su questo Elvis dei Baustelle?
Innanzitutto che i Baustelle non hanno più nulla da dimostrare e possono permettersi di cambiare – parzialmente, in questo caso – stile senza perdere un grammo della loro classe. Elvis è un disco poco immediato, che cresce con gli ascolti. E questo, in una realtà in cui il tempo che si dedica all’ascolto è sempre meno, potrebbe essere un difetto.
Manca forse il pezzo che si staglia sopra agli altri, ma la qualità media è altissima. In definitiva, possiamo tirare un sospiro di sollievo: in un mondo sempre più in trasformazione, la musica dei Baustelle rimane un punto fermo, sia per chi li ama fin dai tempi del Sussidiario, sia per superficialmente li ritiene sopravvalutati.