Lo scrittore inglese Barry Miles, noto per i sui libri sull'underground a Londra negli anni 60, lo dice senza esitazioni: “It’s a show for boys”. Una mostra che piacerà ai maschietti, non solo ai maturi fan cresciuti con la loro musica.
Sì, perché non si era mai visto tanto equipment messo insieme in una galleria d’arte, dai famosi sintetizzatori Moog, alle chitarre elettriche, dagli organi Farfisa e Hammond ai vari strumenti tecnologici usati per le registrazioni e i live, qualcosa che non è un mistero possa interessare gli appassionati della musica elettronica, che ha avuto in questi strumenti oggi così datati le basi del suo futuro.
Forse al Victoria&Albert Museum di Londra non se ne poteva fare a meno, trattandosi di una mostra sulla più grande band mondiale per quanto riguarda la ricerca in territori sonori sconosciuti, suoni che hanno portato davvero il pop nell’Altrove.
I Pink Floyd sono questo, soprattutto: musica che sembra oltrepassare ogni confine, e si inoltra in spazi immensi, composizioni pure dell’anima e dell’immaginazione. E non a caso sempre accompagnate da grandi interventi visivi, che nulla hanno lasciato inesplorato, dalle copertine dei dischi, ai manifesti, ai grandi show dal vivo, fino alle opere cinematografiche.
Miles è lo scrittore che ha animato la stagione dei Sixties londinesi, dove tutto è nato. Ha conosciuto la band ai suoi primi passi, quando era dominata dal genio di Syd Barrett, il primo a lanciare con una chitarra manipolata ad arte qualcosa che solo i compositori contemporanei di allora tentavano, rumori/suoni che con lui finivano in una canzone perfetta (“Arnold Layne”, “See Emily play”) oppure dilagavano in pezzi di 20 minuti, a riconcorrere navi spaziali nel buio delle galassie (“Interstellar Overdrive”).
Sono queste le vere radici sonore dei Pink che l’esploratore Syd riuscì a piantare, a costo di perdersi nel delirio delle sue ossessioni/scoperte, come puntualmente avvenne.
E la mostra The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains (fino al 1 ottobre) che si dipana in senso cronologico lungo i 50 anni della loro storia, lo ricorda forse con i documenti più toccanti: lettere alla sua ragazza di allora, scritte con la lingua semplice e pura dei narratori per l’infanzia in cui Syd pescava le sue storie, sempre illustrate da disegni, perché lui era l’artista pittore del gruppo, una band di ventenni ignari del destino che li attendeva.
Ben oltre gli studi di architettura che a Waters, Mason e Wright diedero quel gusto a costruire mondi sonori ordinati e che lo studente d’arte Syd voleva invece caotici e bizzarri.
Fu Miles a dare loro l’opportunità di un grande pubblico, dopo alcune sparute gig al Marquee, invitandoli al party per il lancio di “International Times”, il giornale dell’underground londinese, nell’ottobre del 1966, inaugurando quella che divenne la venue più calda per la musica dei decenni futuri, la Roundhouse.
Qui i Pink Floyd portarono la versione più completa dei loro show a base di luci psichedeliche, unici a Londra e secondi solo alla newyorkese Velvet Underground lanciata da Warhol. “Suonarono ‘Interstellar Overdrive’ improvvisando a lungo – racconta Miles – ma a un certo punto il sistema elettrico non resse: ci fu un black out proprio al culmine del viaggio spaziale, un vero colpo di teatro!"
Al party di “IT” oltre a Paul McCartney, Marianne Faithfull, Yoko Ono e al grande drammaturgo Peter Brook, si trovava anche Michelangelo Antonioni, in quelle settimane impegnato nel montaggio di “Blow up”: “Ad Antonioni dovettero piacere un sacco, visto che non si dimenticò dell’esperienza, se poi scelse proprio loro per le musiche della scena finale di ‘Zabriskie Point’, l’esplosione della casa nel deserto."
"Dopo il concerto alla Roundhouse – continua Miles – ci fu un crescendo continuo, si aprì la breve ma intensa stagione del club UFO, dove suonarono tutte le sere e ogni volta il pubblico aumentava. Fino al concerto all’alba nell’Alexander Palace, nella primavera del ’67, quando la luce negli occhi di Syd si eraormai spenta”.
Figli di anni frenetici e sperimentali, il resto della band non si fece divorare dalle follie psichedeliche e mattoncino su mattoncino i tre costruirono da bravi architetti, con la nuova entry David Gilmour, le loro opere, che la mostra diligentemente espone con tutto il materiale iconico possibile, ripetendo lo schema di David Bowie is… di alcuni anni fa,
firmata dagli stessi curatori. Presenti, oltre alle copertine del collettivo Hipgnosis, gli artefatti che hanno reso i Pink Floyd unici nell’iconografia musicale, come i maiali volanti della copertina di “Animals”, il gigantesco insegnante di “The Wall”, il soldato britannico a dimensioni reali per l’album “The Final Cut”, le teste metalliche di sei metri per la copertina di “The Division Bell”, diversi video dei loro concerti, e una selezione di interviste di Gilmour, Mason, Waters e Wright, scomparso nel 2008.
Tutti interventi, questi, rigorosamente misurati nei tempi, perché, racconta Miles: “Impigliati da anni in cause legali dopo la separazione, i tre hanno chiesto di avere lo stesso spazio, nel narrare la storia della band. E’ triste ma la mostra ha dato un sacco di lavoro agli avvocati di Waters e Gilmour” .
Tutti d’accordo invece nel far concludere il percorso con l’ultima performance al Live 8 del 2005 a Hyde Park dei quattro riuniti eccezionalmente per l’occasione. Un concerto restituito in 3 D e un audio da far tremare i muri del Victoria&Albert.
(fonte: di Valentina Agostinis – link)
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