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Franz Ferdinand, il fulmine a ciel sereno del rock di inizio millennio

La cover di Franz Ferdinand

L’album di debutto dei Franz Ferdinand esce in Gran Bretagna nel febbraio del 2004 in un periodo in cui il rock si è affacciato con ottimismo al nuovo millennio. Senza sapere cosa lo attende.

Quando i Franz Ferdinand si avventano sul mercato, il Britrock ha ormai superato da un pezzo il suo massimo splendore e si è ramificato in infiniti rivoli. Dall’altra parte dell’oceano l’onda lunga del grunge si è a sua volta perduta in movimenti minori e spesso poco digeribili, mentre va affermandosi il revival della New Wave.

Col perverso amore per le etichette di chi vuole categorizzare tutto, il movimento prende il cacofonico nome di Nu-New Wave. The Strokes, Interpol, Kills: questi sono i nomi che fanno furore e che coi loro muri geometrici di chitarre e una patina di disillusione dureranno il tempo di uno sbadiglio.

La Gran Bretagna, titolare della New Wave originale, almeno per i nomi più celebri, cerca di rispondere a tono anche se l’epoca è quella del Brit piacevole ma un po’ svenevole di band come Coldplay (i primi, quelli più ispirati) e Travis. Il 2004 pare essere l’anno dei Veils, band validissima ma con un suono un po’ melodrammatico e non proprio all’avanguardia.

La New Wave schiera gli Editors e altre band che non arriveranno mai al grande salto, quando, con la sorpresa tipica dei grandi, arrivano i Franz Ferdinand.

La band è schierata con un quartetto che vede al posto di comando l’istrionico dandy Alex Kapranos, metà inglese e l’altra greco, compositore, cantante spietato e chitarrista. Con lui, Nick McCarthy alla chitarra e alle tastiere, Paul Thomson alla batteria e Bob Hardy al basso. Il gruppo si forma a Glasgow e batte bandiera scozzese.

Tutti i componenti, specie Kapranos, hanno già le loro belle esperienze maturate nei favolosi Nineties britannici. Alex, per dire, ha trentadue anni, un’età più da Oasis e Blur che da Strokes. Il sound che mettono assieme è un frullatore che mescola la New Wave più classica, quella dei Joy Division, con un approccio quasi danzereccio e che tiene nella dovuta considerazione i grandi del Britrock.

Quando – agli NME Awards del 2005 – Kapranos ritira un premio, cita come ispirazioni Oasis, Depeche Mode, New Order e Pet Shop Boys. I più si sorprendono, ma in realtà i Franz Ferdinand omaggiano effettivamente queste quattro band nel loro approccio. Il modo di fare un po’ cazzone degli Oasis, ma anche le geometrie dei New Order, il cupo istrionismo di Gahan dei Depeche Mode e l’istinto dance dei pet Shop Boys.

Il nome Franz Ferdinand, che rimanda all’arciduca la cui uccisione provocò lo scoppio della I Guerra Mondiale, ha origine in realtà da un cavallo da corsa. Il suono dell’allitterazione e le implicazioni storiche convincono i quattro ragazzi a adottare il moniker.

Il debutto coglie un po’ tutti di sorpresa nel febbraio del 2004, un album eponimo con una grafica minimale allo stesso tempo scarna e curatissima. L’aspetto estetico è del resto caro alla band, che si presenta nel video di This Fire quasi in divisa, con un immaginario tra i Kraftwerk e l’estetica sovietica.

L’album è preceduto da Darts Of Pleasure, singolo d’esordio che mette in chiaro la direzione dei Franz Ferdinand. I ritmi sono vorticosi e dettati da basso e batteria, la voce di Kapranos è perfettamente in controllo e assertiva, passando dalla decisione ferma delle strofe al tono carezzevole del melodico ritornello.

Cavalcate frenetiche e bruschi rallentamenti, una ritmica quasi dance, il basso pulsante e l’attitudine a una specie di rave up alla Yardbirds. I ritornelli spesso in coro e le chitarre che si muovono sicure su direttive quasi geometriche, queste le caratteristiche principali del suono dei Franz Ferdinand.

Il disco si apre con Jacqueline, brano ispirato che inizia come una melodica ballata. La voce suadente di Alex è accompagnata solo dalle pigre pennate di una chitarra acustica. Nemmeno un minuto e – quando pare di essere al cospetto di un romantico chansonnier – il basso inizia a pulsare e la chitarra elettrica a sparare traccianti.

Il brano è tutto in crescendo con brevi affondi di chitarra solista da puro rock’n’roll. Pare a questo punto prevedibile un finale che torna alla melodia iniziale, e invece i Franz Ferdinand la chiudono così, quando sono in netto vantaggio e tanti saluti.

Tell Her Tonight, un sorprendente funk sbilenco, si apre con un riff che ha un che di esotico per aprirsi a un ritornello solare che evoca Kinks e una quantità di band Sixties. Il basso è sempre in primo piano e così le chitarre di McCarthy e Kapranos, indifferenti alle definizioni di solista e ritmica, ruoli che si scambiano continuamente con grande pertinenza.

Take Me Out è uno dei pezzi killer dell’album, forse quello che li impone all’attenzione generale. L’attacco è quasi da hard rock, eppure non manca una certa propensione alla melodia nel cantato freddo ed efficace di Kapranos. A un certo punto, però, i toni si abbassano, la chitarra mette a segno un riff indolente e tutto cambia.

Dal quasi punk iniziale si passa a un orecchiabile funk che rende il brano impossibile da non ballare.

The Dark of the Matinée è segnata invece da un bel riff che rimane subito impresso in testa. Il ritmo rallenta subito e offre la scena alla solita efficace prestazione vocale di Kapranos. La bellissima Auf Achse è quasi dance suonata con strumenti rock. Il testo narra l’ossessione per una ragazza nemmeno così speciale, peraltro non corrisposta.

Il tono di Kapranos, in un pezzo più lento almeno fino al ritornello, ricorda i Pulp del grande Jarvis Cocker. In un certo senso, però, è proprio Auf Achse a chiarire il piccolo debito nei confronti di una band diversissima come i Pet Shop Boys nell’impianto dance.

Franz Ferdinand prosegue sulla falsariga dei primi brani con continue cavalcate che alternano velocità e frenate; il basso è sempre pulsante e rotola tra punk, New Wave e discomusic, i riff di chitarra si susseguono, precisi e spietati. Kapranos, poi, è la vera marcia in più del complesso, sia per la presenza scenica, sia per l’istrionica ed espressiva vocalità.

Da segnalare ancora la tiratissima Michael, racconto all’epoca scabroso di un protagonista bisessuale, l’attacco western di Come On Home che ispirerà non poco progetti come i Last Shadow Puppets e la chiusura di 40 Ft, dalle parti dei Cure.

Si arriva alla fine piacevolmente estenuati e quasi con la mancanza di un’occasione di decompressione. Avrebbe forse giovato, come avverrà nel sophomore You Could Have It So Much Better di un anno dopo, l’inserimento di un paio di ballate. Eppure, Franz Ferdinand rimane comunque il lavoro manifesto della band e la fotografia di un momento musicale in cui pareva ancora possibile rianimare il buon vecchio rock per l’ennesima volta.

I Franz Ferdinand irrompono quindi sul mercato, si potrebbe dire in tarda età, proporzionalmente, facendo incetta di premi, vendendo benissimo e tirando la scia a una serie di band che ne emulerà il suono solo in superficie.

I Franz Ferdinand stessi, invece, perderanno un po’ lo smalto, seguendo l’andamento a picco del mondo del rock. You Could Have It So Much Better sarà un degno seguito, con l’inserimento di alcune belle ballate (Walk Away su tutte), ma forse troppo simile al debutto e troppo levigato per lasciare il segno.

I lavori successivi sono ben distanziati tra loro e mantengono alta la qualità ma senza trovare nemmeno da lontano l’alchimia dell’esordio. Impossibile, infatti, ripetere la sequenza di eventi che dà al debutto quel sapore di leggenda, soprattutto perché nel frattempo i fan sono maturati con la band.

Ma soprattutto, ad andare perduto è lo zeitgest, lo spirito del tempo di inizio millennio che è tramontato. A ben vedere, forse senza aver trovato una degna eredità per chi si ostina a cercare nel rock qualcosa di nuovo suonato alla vecchia maniera.

— Onda Musicale

Tags: Kraftwerk, Oasis, Depeche Mode, Yardbirds
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