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David Gilmour da solista: perfetto, manca solo Roger Waters

David Gilmour negli anni 70

Alla fine degli anni Settanta le tensioni interne hanno già logorato quasi totalmente l’armonia dei Pink Floyd. Quando, il 25 maggio del 1978, esce David Gilmour, l’esordio solista del chitarrista, lo scioglimento sembra a molti inevitabile.

David Gilmour è allo stesso tempo l’ultimo arrivato nell’alchimia dei Pink Floyd e l’elemento più in vista per il grande pubblico. Questo non solo perché è il chitarrista, da sempre il fulcro di ogni band rock, ma anche perché ne rappresenta la faccia più vendibile. David è bello e gentile, oltre a saper tirar fuori dalla sua Stratocaster note dolci e tirate ma mai stucchevoli.

La vera anima compositiva del complesso è però quella di Roger Waters. Il bassista ha una voce e una presenza di certo meno accattivante di David, oltre a un carattere spigoloso che col tempo va facendosi sempre più dispotico. Il grande successo del periodo d’oro dei Pink Floyd va infatti ascritto soprattutto alle intuizioni di Roger.

Quello che Waters ignora, o più probabilmente finge di non sapere, è che le sue grandi trovate a livello di contenuto poco potrebbero senza la straordinaria alchimia del gruppo. L’impasto vocale tra Gilmour e Richard Wright, intanto, ma anche il collante ritmico e umano di Nick Mason, batterista sottovalutato e persona di grande umanità. Quello che però non va giù – tuttora – a Waters è l’importanza della chitarra di Gilmour.

All’indomani di Animals, ottimo album ma lontano dalla perfezione di The Dark Side of the Moon e titolare di un tour durante cui le tensioni si fanno insopportabili, molti scommettono sulla fine del sogno dei Pink Floyd. David Gilmour, l’album del 1978, pare dare corpo a queste paure.

I pessimisti, va detto, sono come sempre vicini alla verità, ma i Pink Floyd hanno ancora da scrivere qualche pagina di storia del rock. The Wall, infatti, uscirà nel 1979 e sarà intimamente legato ai suoni dell’esordio gilmouriano, ma finirà comunque per spezzare definitivamente gli equilibri. The Final Cut, come evoca già il titolo, metterà la pietra tombale alla storia dei Pink Floyd con Roger Waters.

L’esordio di David Gilmour matura insomma in tempi agitati, tempi in cui David rivendica per sé un ruolo che vada oltre quello di abbellire musicalmente le intuizioni di Waters. Gilmour vuole dimostrare che anche lui ha una vena compositiva pari a quella del dittatore della band. Col suo disco finirà per dimostrare una tesi un po’ diversa e a metà strada – come sempre – tra le rivendicazioni dei due.

Un po’ come sarà per tutta la sua carriera solista e per i dischi dei Pink Floyd post Waters, il buon David dimostra che il suo suono è inimitabile ma che le sue composizioni faticano a reggersi senza l’estro di Roger. Lo stesso avverrà per Waters e la sua carriera da solo: dischi di grandi contenuti ma che pagano l’assenza della giusta formula della band madre.

La somma dei singoli musicisti dei Pink Floyd, dà insomma un risultato molto maggiore di quello che vorrebbe l’algebra. Di questo si accorgono tutti tranne proprio i protagonisti, in particolare Gilmour e Waters, ancora oggi impegnati in una querelle che assume oramai contorni grotteschi.

Ma torniamo al maggio del 1978, quando nei negozi arriva David Gilmour con la sua copertina che ne delinea già le atmosfere di basso profilo. David si staglia su uno scarno sfondo innevato e guarda in camera senza troppa convinzione, vestito come per una serata al pub. Dietro di lui i musicisti della sua backing band.

E proprio i nomi di Rick Wills, il bassista, e Willie Wilson, batteria, fanno luce sulla natura del progetto. I due suonavano con David nei Jokers Wild, il complesso in cui Gilmour ha mosso i primi passi sui palchi secondari di Cambridge. La band, destinata ai libri di storia solo per la militanza del chitarrista, aveva preceduto l’ingresso di David nei Pink Floyd di fine anni Sessanta, alle prese col genio ingestibile di Syd Barrett.

Gilmour pare allo stesso tempo voler pagare un debito con il suo primo complesso e tornare alla spensieratezza di quei giorni, dopo aver capito che successo e denaro non erano forse le risposte di cui era in cerca.

Ai tre si uniscono le coriste Carlena Williams, Debbie Doss, Shirley Roden e in un brano il piano di Mick Weaver. L’impasto di voci femminili è già da allora un must del suono di Gilmour, un suo vezzo che non sempre dà i risultati sperati.

Il disco si apre con Mihalis, uno strumentale in pieno stile rilassato alla Gilmour e che anticipa, per certi versi, i suoni degli anni Ottanta. All’inizio la chitarra di David si limita a reiterare pennate sugli accordi per quasi due minuti; quando l’ascoltatore inizia a chiedersi se abbia sbagliato a inserire musicassetta, ecco fare capolino la chitarra solista coi suoi tipici suoni.

Siamo comunque di fronte a un brano che non brilla certo per le emozioni che sa trasmettere, a metà tra un pezzo da libreria musicale e un brano floydiano di quelli un po’ da riempitivo. La chitarra, però, molto trattata e non tirata allo spasimo, è interessante. Questi suoni, infatti, all’epoca abbastanza diversi da quanto sentito fino ad allora coi Floyd, torneranno in futuro, specie quando Gilmour prenderà le redini del gruppo.

There’s No Way out of Here è una cover degli Unicorn, band non proprio celebre prodotta dallo stesso Gilmour. Il brano, una ballata dai sapori quasi southern che si apre in un ritornello da classic rock britannico, risulta piuttosto efficace. La voce di David cala subito l’ascoltatore nella magica atmosfera che evoca, che è quella dei Pink Floyd, c’è poco da fare.

Nel sound del pezzo il basso è molto in evidenza, così come i cori femminili, prima che la sei corde prenda il sopravvento. Non si tratta certo del solo più efficace della carriera di Gilmour, ma il suo suono è sempre molto riconoscibile e rimanda molto a certe cose di Obscured By Clouds.

La successiva Cry From the Street vanta un attacco di chitarra tra i più secchi mai sciorinati da Gilmour. Un rock blues in piena regola, con qualche accenno funky che tornerà in certi passaggi di The Wall solo un anno dopo. La voce è trattata con un suggestivo effetto eco e punteggiata dai fill della Stratocaster.

Un pezzo in cui Gilmour si sfoga a dare corpo alle sue fantasie blues, con un suono secco abbastanza inusuale per il suo stile e che rimanda a quello di Ritchie Blackmore dei Deep Purple. Nel finale il ritmo aumenta dando vita a una coda piuttosto incongrua col brano.

Siamo in chiusura della prima facciata con So Far Away, ballata introdotta dal suadente piano di Mick Weaver. So Far Away è un bel brano, lento e malinconico al punto giusto, a cui manca davvero poco per creare quella magia che David è sempre riuscito a creare solo in compagnia di Waters e soci.

Certe assonanze con Comfortably Numb sono però davvero evidenti. La cosa non deve stupire: non è un mistero che uno dei più grandi classici floydiani, prima di finire in The Wall e diventarne forse il vero capolavoro, era stato scritto da Gilmour per questo album. Già, un pezzo composto troppo tardi per finire nella tracklist di David Gilmour e che, col testo di Waters, sarebbe diventato un classico della storia del rock, con uno degli assoli più iconici di sempre.

Tant’è, e il nostro album va avanti con la seconda facciata.
Short and Sweet è scritta con Roy Harper, proprio quello che canta Have a Cigar in Wish You Were Here. Una scelta che il dispotico Roger Waters, a dispetto di ogni evidenza, ancora oggi rimpiange.

Il brano è inizialmente piuttosto lento e dall’atmosfera piacevolmente sospesa, salvo poi decollare in una parte centrale più rocciosa. Non è certo, in ogni caso, il capolavoro del disco.

Raise My Rent è invece un nuovo strumentale che si regge su un bell’arpeggio di chitarra. La sei corde offre un suono particolarmente flangiato (se ci passate il termine da flanger, l’effetto usato sulla chitarra). Sono cinque minuti e mezzo di tipico suono gilmouriano, col tipico ispessimento sulle note basse e le aperture melodiche improvvise.

Vale qui il discorso che si può applicare a tutta la produzione solista di Gilmour: Raise My Rent è uno strumentale bellissimo, che si ascolta con piacere, ma se ci fosse stato Waters a scriverne una parte da cantare, avremmo avuto un altro capolavoro.

No Way prende le mosse da uno scintillante riff di chitarra e vede subito entrare la voce di Gilmour. È forse il caso di parlare un po’ della vocalità di David, una sua dote di cui si parla sempre poco, giustamente concentrati sulla chitarra. La voce del musicista è chiara, quasi mai sforzata eppure molto espressiva; è forse giunta l’ora di dare il giusto merito al cantante David Gilmour, efficacissimo nel suo habitat.

No Way, col suo andamento da blues lento e ostinato, è forse la vetta del disco. La parte cantata è solidissima, mentre sul piano musicale David sciorina una verve chitarristica degna dei giorni migliori. Il musicista si difende bene nei pochi tocchi liquidi all’Hammond. Anche qui il suono anticipa in modo evidente certi passaggi del futuro The Wall.

Deafinitely è uno strumentale con molta elettronica e un ritmo sostenuto che si muove su coordinate al limite del progressive. Non manca una bella parte di chitarra, ma in definitiva – per dirla col titolo – siamo di fronte più che altro a un passaggio curioso del repertorio di Gilmour.

Il disco si chiude con I Can’t Breath Anymore, una ballata che si rifà a certe cose di Dark Side. L’apertura è delicata e lenta, con un suono della sei corde abbastanza in linea col decennio che sta per piombare sul rock. La parte centrale è più potente e robusta e si trascina fino alla coda. Una conclusione dignitosa ma un pezzo che non è certo un capolavoro.

Tirando le somme, David Gilmour è un ottimo disco che, misteriosamente, gode di scarsa fama e viene raramente citato. Probabilmente all’epoca gli amanti di un certo suono Pink Floyd più gentile e meno ostaggio delle riflessioni di Waters lo può perfino avere trovato una boccata d’aria rispetto alle atmosfere cupe di Animals.

Non solo, il suono dell’album contiene i prodromi di quelli che saranno in The Wall l’anno dopo e anche quelli dei Pink Floyd del dopo Waters. Se Gilmour avesse fatto in tempo a incidere la futura Comfortably Numb, con ogni probabilità il suo esordio solista sarebbe stato al limite del capolavoro.

E, privando The Wall del suo pezzo più quotato, avrebbe fatto anche un grosso dispetto al suo amico nemico Roger Waters.

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd, Roger Waters, The Wall, The Dark Side of the Moon
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