Sarà che c’è sempre poca luce poco prima dell’aurora. Per questo forse quella che segue è una storia che è sempre stata illuminata meno del dovuto. Correva l’anno 1973 e tra qualche mese saranno passati esattamente 50 anni da quando veniva consegnato al pubblico “Poco prima dell’Aurora”.
Non saprei bene da dove partire nel raccontarvi il “mio disco” di Oscar Prudente e di Ivano (per l’occasione anche Alberto) Fossati. Forse è giusto quel che mi dissero un giorno e cioè che in fondo di certi dischi si è detto talmente tanto che l’unica cosa che resta è soltanto quella di dire la propria. Per quel che conta sempre… che poi ogni ascolto personale ha con se quel fascino inappellabile della propria lettura, delle proprie emozioni. Non è anarchia… ma in fondo un po’ ci somiglia.
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La copertina. Sembra un buon punto da dove partire. Siamo dentro un vicolo, tra i palazzi di periferia di una grande città, pensando a quel “metro di terreno che ti assegna la comunità”, respirando veleno ovviamente…
Tanto per ripescare concetti seminati ovunque dentro le trame di questo viaggio notturno, consumato poco prima dell’aurora. Sta arrivano un bagliore lontano, ancora per poco e poi la notte se ne andrà… che questo disco sembra combatterla la notte, sembra celebrarla come un passaggio che dalla morte si arriva a nuova vita che dunque significa rinascita… nuovi incontri, nuovi amori, il momento buono di rubare un’occasione o il coraggio di illuminare anche i propri difetti. E ci faccio caso dopo mille ascolti come la chitarra elettrica che risponde al basso ha quel retrogusto floydiano a tratti inquietante. Perché la notte è inquietante, ed è l’aurora a portare un sollievo al protagonista di questo viaggio, allegorico ma neanche tanto.
E di “Battisti”? Beh, vogliamo partire da qui? Ascoltate quanto sia battistiano l’unico brano che ci canta il solo Prudente…
…parliamo di “L’Africa” brano d’amore, amore tra sconosciuti forse, amore che dai contorni romantici vira (sembra) verso direzioni assai maschiliste… altro interessante punto di contatto con un certo momento lirico di Mogol. E forse non è un caso se proprio in quei giorni d’estate, in quello stesso studio, si ultimavano anche le registrazioni de “Il nostro caro angelo”…
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Oppure dall’amico Guido Guglielminetti potrei partire. Me lo raccontò di persona e in una delle tante interviste radio, ma qui riprendo letteralmente proprio il passo citato nella sua bellissima biografia dal titolo “Essere Basso” edito da L’ArgoLibri:
«Oscar Prudente non aveva mai scritto una nota musicale in vita sua e non aveva nessuna intenzione di cominciare a farlo allora! E neppure suonava il basso! Allora come faceva a spiegarmi cosa volesse? Lo mimava! Lo “mimava”, bofonchiando, a voce, fraseggi quasi incomprensibili. Mentre Ivano suonava il pezzo in questione, alla chitarra o al pianoforte, Oscar si piazzava davanti a me, in piedi, iniziava una specie di danza rituale, atteggiando le mani come se si muovessero sulla tastiera di un basso, e con tutto il corpo cercava di trasmettermi il modo, il tipo di fraseggio, gonfiando le guance ad indicare le note più gravi, avvicinando la mano sinistra alle costole a significare le note più acute; ogni tanto mi faceva “alt” con la mano destra, quella era uno stop!”»
E così avanti a costruire alcuni passaggi che poi hanno fatto la storia di questo disco… perché in fondo, a pensarci bene, il basso di quello che divenne poi il capobanda di De Gregori, è un centro nevralgico dell’opera. Volevano che fosse così perché così si raccoglieva l’ispirazione di quel tempo che era il tempo delle contaminazioni americane (e in copertina, quel vicolo, sembra davvero l’America), il tempo delle produzioni che mettevano spesso il basso in prima linea e non solo a corredo e sostegno della ritmica. E non dimentichiamolo: per noi quelli sono gli siamo negli anni di piombo, delle contestazioni, anni di ricerca e di libertà, anni di dischi epocali, anni dentro cui il pop d’autore spesso cercava l’evasione spirituale, nei suoni come anche nelle liriche…
Oppure potremmo partire dal fatto che penso ci siano cose che tornano dentro questi solchi. Ripesco di nuovo quelle cellule di basso che aprono in assoluto il disco e che, sempre in altra forma me nelle stesse intenzioni, ritroviamo più avanti (e sempre in apertura) “10 Km dalla città”.
E non è nel basso l’unico modulo che torna: ricorre anche un certo modo di risolvere la melodia vocale, modo assai accattivante che scopro per la prima volta proprio dentro “È l’aurora” e poi ancora più avanti, nella sua gemella già citata “10 Km dalla città”… e poi ancora più in giù nella tracklist in “Lo stregone”. Sono dettagli, sono modi, sono sensazioni mie personali…
E queste chitarre di contorno? Quelle dei piccoli fraseggi in risposta alla melodia? Vogliamo partire da loro? Sembrano incerte, mangiate ai bordi, quasi farraginose… provate ad ascoltarle con attenzione in “Ehi Amico!” ad esempio: un dialogo che al minuto e cinquanta circa sembra davvero casuale, un’estetica dal forte potere narrativo ma che oggi avremmo cancellato in preda al terrore. Così come le note suonate a corona degli incisi di “Prendi fiato e poi vai”: sono spesso “diverse”, acciaccate nelle diteggiature… almeno sembra… ma in fondo, che abbia ragione o meno il mio orecchio, ha senso parlarne così? Col senno di poi trovo che elementi così veraci, umani e artigianali siano lo specchio dell’individuo, dell’artista prima ancora che del suo suono. Si, forse sono esecuzioni un po’ dozzinali (direbbe il critico di oggi), ma dalla loro hanno la potenza del vero che ormai, nei dischi moderni, è pura utopia vista la perfezione estetica di ogni cosa.
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Oppure potrei partire dal mio senso di viaggio che trovo salvifico dentro questo lavoro così “ingenuo”. Il viaggio alle porte di una città, uno stregone che benissimo può somigliare ad un uomo randagio che dorme in macchina, uomini diffidenti, persone che cerco ma che rifuggono nella loro sicura solitudine, uomini che hanno il coraggio di sfidarla la vita che arriva di giorno…
Siamo a 10 Km dalle prime luci della periferia, che tutto sembra tranne che di una città turistica… le campagne intorno sanno di attesa, un cane che abbaia mette paura, qualche rumore strano mette ansia e poi piove e ho i vestiti bagnati… un amore incontrato per caso, che se resta qui vedrete che lo scelgo per giocare assieme un’ora… che io sono l’Africa, sono il caldo e la passione, sono un mare in tempesta e alla fine si sa… io parto sempre e non torno mai.
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Alla fine penso di poter partire dicendo che “Poco prima dell’aurora” è un disco che Ivano (Alberto) Fossati ha sempre celato e mai celebrato con entusiasmo.
Un disco che io eleggo a bandiera di tanto prezioso mestiere d’arte che mi manca tantissimo, soprattutto nei dischi dei santi subito di questo tempo di industriale, dove la forma prima di tutto e poi l’uomo e i suoi limiti. Potrei partire dicendo che in questo disco sono proprio i limiti di tante cose a realizzarne l’incanto. Insomma, alla fine penso che qualunque punto vada bene per iniziare il racconto di questo disco. Che in fondo, quando le opere degli uomini hanno così con così tante storie e ragioni da dare dietro ogni passaggio, è come partire ogni volta, ad ogni ascolto, sempre… partire, per non tornare mai.