Nella storia del rock c’è forse una sola band a poter vantare radici russe e ad aver detto qualcosa di importante per il genere. Parliamo degli Steppenwolf e la loro vicenda è legata a doppio filo con quella di John Kay.
John Kay si chiama in realtà Joachim Fritz Krauledat e nasce il 12 aprile del 1944 in quella che oggi è la città russa di Sovetsk. Il tempo in cui il futuro leader degli Steppenwolf nasce è quello cupo della fine della II Guerra Mondiale. La città all’epoca si chiama ancora Tilsit e appartiene alla Germania. La madre di Joachim capisce subito che la vita – Germania Est o URSS che sia – non arriderà a chi resta e fa di tutto per fuggire.
Dopo una rocambolesca fuga via Hannover, quando Joachim ha quattrodici anni e una già solida passione per la musica, la famiglia in fuga approda in Canada. Joachim è adolescente e scopre il rock’n’roll e le radici del blues; quattro anni dopo ha già formato gli Sparrow, una band che suona una versione bianca del blues.
Con lui ci sono Jerry e Dennis Edmonton e Nick St. Nicholas, futuri compagni di scorribande con gli Steppenwolf. Joachim Fritz Krauledat diventa John Kay, si fa crescere i capelli e un paio di baffetti non proprio da antologia ed è pronto per il grande salto. Il Canada non è esattamente il posto giusto, chiedere a Neil Young, per chi vuole sfondare nel rock.
I ragazzi, allora, ci provano a New York e si ritrovano a condividere per qualche tempo lo stesso albergo con i ragazzi dei Lovin’ Spoonful e con John Hammond jr. Sono nomi che di lì a poco diranno qualcosa di importante per il rock americano, ma la Grande Mela non è in quel momento il posto ideale per il rock. Sì, perché le grandi rivoluzioni musicali si stanno preparando dall’altra parte della costa, in California.
I giovani Steppenwolf, che ancora non si chiamano così, vanno allora a Los Angeles e iniziano a suonare per locali. John è però una testa calda, è fuggito dal regime sovietico ma ritiene quello americano, per lui solo in apparenza democratico, pure peggio. Ecco allora i ragazzi mettersi in luce più che per la musica per i disordini in cui si trovano coinvolti, specie in manifestazioni contro la follia del Vietnam.
Ed è solo quando sono costretti a riparare a San Francisco che i musicisti trovano la loro strada. La città della Summer of Love è molto più aperta verso i giovani alternativi e nei locali va sobbollendo la rivoluzione psichedelica. Tra droghe leggere o sintetiche e musica dilatata fino al parossismo, band come Grateful Dead, Jefferson Airplane, Quicksilver Messenger Service e Moby Grape cucinano il nuovo suono. L’LSD impazza e così gli acid test e altre droghe più familiari, quelle dei cosiddetti trip buoni.
L’estetica è quella del quartiere di Haight-Ashbury e i ragazzi ci si calano – è la parola giusta – appieno. La carriera però stenta a decollare, tanto che Dennis Edmonton abbandona dopo aver scritto, col nome di Mars Bonfire, quello sarà l’anthem della band e del rock più selvaggio: Born To Be Wild. Il caso è però in agguato: John Kay scopre che il suo vicino di casa è Gabriel Mekler, produttore per la Abc/Dunhill Records.
Mekler ascolta qualche nastro e si convince, ma suggerisce di cambiare il nome in Steppenwolf. Meglio un lupo della steppa di un passero, soprattutto se il moniker rimanda al classico di Hermann Hesse, autore di culto per la controcultura giovanile dell’epoca. Non è chiaro se Kay e compagnia bella conoscano il romanzo, ma il dado è tratto e gli Steppenwolf si preparano a infiammare per una stagione brevissima il rock americano.
Con il giovane ma validissimo Michael Monarch alla chitarra solista al posto di Edmonton, la band registra il primo, eponimo album nel 1968, per poi uscire a gennaio dell’anno dopo.
La formazione che registra il debutto vede, oltre a Kay, Edmonton alla batteria e Monarch, Rushton Moreve al basso e Goldy McJohn alle tastiere. Il disco si apre con Sooky Sooky, cover del soulman nero Don Covay. Sembra di sentire una sorta di James Brown filtrato attraverso una sensibilità psichedelica. I suoni sono grezzi e acidi, molto più duri di quelli della psichedelia più o meno gentile di Grateful Dead e Jefferson Aiplane. La voce di Kay è un ringhio nero e credibile, mentre la chitarra di Monarch, lontana da inutili virtuosismi, è molto centrata.
Everybody’s Next One è un pezzo che riecheggia un po’ il beat e il garage, con accenni quasi melodici. Non proprio un capolavoro. Berry Rides Again è un curioso omaggio al rock delle radici del padre fondatore Chuck Berry. Il testo di John Kay rende il giusto tributo a Johnny B. Goode, Maybellene e altri classici, mentre la ritmica propone i tipici power chords berryani.
Un breve divertissment piacevole che apre a un pezzo che Kay eseguiva spesso con gli Sparrow, il classico di Muddy Waters Hoochie Coochie Man. La versione è in una resa psych già dal titolo, incattivito dall’uso della K. Il sound è particolare e degno di nota per come trasfigura un classico del blues in qualcosa di mai sentito.
La chitarra di Monarch è notevole. Michael, come detto, è lontano anni luce dalla figura del guitar hero che proprio in quei giorni si va affermando. Il suo stile non prevede pezzi di bravura fini a sé stessi, ma un suono incredibilmente saturo e ricco di riverbero e sostegno; le lunghe note con un che di spaziale rimandano a pezzi come The Pusher, ma in salsa blues: davvero notevole.
John Kay è qui del tutto a suo agio. Si vede che il blues è stato per anni il suo pane quotidiano e il modo in cui arrota la voce per fare il verso a Howlin’ Wolf, più che al grande Muddy, dice tutto.
Sfumato il blues è però il momento di entrare nel mito del rock.
L’intro di Born To Be Wild, un riff semplicissimo, fa subito venire i brividi. Siamo di fronte a uno dei pezzi più iconici dell’intera storia del rock, una paurosa intuizione di Mars Bonfire, alias Dennis Edmonton. Intuizione che rimane però isolata, se è vero che il buon Dennis ne ha una molto meno felice quando decide di tentare la carta solista.
La sua versione di Born To Be Wild, incisa anche per il suo primo album, non la ricorda forse nemmeno lui. Tornando agli Steppenwolf, si tratta del loro brano perfetto. La parte d’organo, l’urlo liberatorio di John Kay, il testo: tutto è calibrato alla perfezione. Il verso “Heavy Metal Thunder” ha da sempre fatto versare fiumi d’inchiostro e dato il là alla teoria che lo vuole origine del genere heavy metal.
Una teoria che non gode di nessuna prova ma che piace a tutti citare, anche a noi, per farsi belli.
Il brano ha un successo incredibile da subito, superando il milione di copie vendute; è però l’inclusione in Easy Rider, film culto di Dennis Hopper prodotto da Peter Fonda, figlio di Henry e fervente hippie all’epoca, a far entrare nel mito la canzone. Difficile scindere l’urlo di Kay dai chopper di Dennis e Peter nel celebre road movie e da tutta la stagione dei figli dei fiori americani.
Da ricordare anche l’utilizzo in una bella e celebre campagna pubblicitaria anni Ottanta della Pioneer.
La prima facciata di Steppenwolf si chiude con Your Wall’s Too High, blues sghembo con una chitarra particolarmente lamentosa e un ritornello non proprio azzeccato. Il lato B si apre con Desperation, una ballata d’atmosfera che unisce il soul con un bell’arrangiamento rock.
Arriviamo così all’altro momento cult del lavoro, The Pusher.
Il brano, inserito a sua volta nella OST di Easy Rider, è una cover di Hoyt Axton, cantautore che passerà agli annali proprio grazie a questo brano nella versione Steppenwolf. Il testo esalta la figura del “dealer”, lo spacciatore hippie di Marijuana e LSD, ritenute droghe buone, contrapposto al “pusher”, malavitoso spacciatore di droghe pesanti.
Bisogna, ovviamente, riportare il tutto al contesto dell’epoca per trovare il giusto senso di parole che possono sembrare assurde. L’importante però è la musica. L’attacco con gli accordi secchi della chitarra ritmica e il basso in primo piano, rotti dalla chitarra spaziale di Monarch, sono da leggenda. La prestazione di John Kay è degna di quel grande che sarebbe potuto essere con un po’ più di continuità.
Nel complesso, The Pusher è sicuramente uno dei brani più belli del rock americano e il valore aggiunto di Easy Rider lo fa giustamente entrare nel mito per direttissima.
C’è spazio ancora per A Girl I Knew, ballata che si apre in modo straniante e procede poi per strade beat. Un pezzo dalla bella melodia dove però c’è qualcosa che manca per renderlo al livello dei migliori. Molto bella la parte di chitarra.
Steppenwolf si chiude con Take What You Need e The Ostrich, due pezzi che in modo diverso ricordano i coevi Doors. La band di Jim Morrison è sicuramente un riferimento per il suono degli Steppenwolf, anche se non è chiaro chi abbia ispirato chi. The Ostrich, con una ritmica alla Bo Diddley, è davvero un’ottima chiusura, dura e con una bella parte di chitarra.
L’album di debutto degli Steppenwolf, insomma, è un ottimo lavoro che paga paradossalmente la celebrità di Born To Be Wild e The Pusher. Due brani che, al di là del grande valore intrinseco, entrano nella leggenda grazie a Easy Rider finiscono per schiacciare le altre canzoni del disco.
Anzi, a dirla tutta, il successo incredibile dei due brani influenza forse il futuro poco roseo degli Steppenwolf. La band, infatti, per un po’ riempie gli stadi e vende milioni di dischi, Magic Carpet Ride è un altro grande bestseller, ma finisce poi per seguire la tipica parabola di tanti gruppi di successo. L’ispirazione cala, la band non riesce a adattarsi alla fine della breve stagione psichedelica e John Kay vuole tentare la carriera da solo.
Tra dischi iper-politicizzati – Monster – scioglimenti e réunion, la storia degli Steppenwolf arriva ai giorni nostri. È però una storia che si ripiega sempre su quegli anni magici in cui alla band riusciva tutto facile.