Il biennio 1966–1967 costituisce un periodo unico all’interno di un decennio già di per sé inconfondibile, straordinario e soprattutto memorabile.
La musica conosce un sensibile balzo in avanti a livello di maturità, come risulta anche da un semplicissimo confronto con la produzione “commerciale” di pochi anni addietro: molti gruppi prendono una pausa di riflessione dalla raffica di tournée cui sono obbligati e gli effetti di questo appartarsi si fanno chiaramente percepire.
Nuove mode si fanno largo – ma in realtà è un ritorno in auge (esattamente come il vinile ai nostri giorni) – complici anche i negozi di Carnaby Street, dello Stile Vittoriano (tra i più celebri nomi della strada londinese si annovera la boutique I Was Lord Kitchener’s Valet) e dei Roaring Twenties.
Gorilla, album di esordio della Bonzo Dog Doo Dah Band, è un degno figlio di tale clima culturale. Settembre 1962: dall’incontro tra Neil Innes (futuro membro di Rutles e Monthy Pithon) e Vivian Stanshall, grazie anche ad un gioco di parole chiaramente dadaista, nasce per l’appunto la Bonzo Dog Doo Dah Band, ma i frequenti cambi di formazione nonché i vari imprevisti del percorso formativo ne ritardano per lungo tempo quell’esordio che finalmente vede la luce con Gorilla.
L’album è una memorabile pietra miliare della musica dei Sixties (e non solo) in quanto è un’originalissima miscela in cui interagiscono vari generi e varie epoche; aggiungiamoci della satira, un’intelligente verve comica, un pizzico di sana follia ed otterremo un risultato scoppiettante! Dopo l’apertura di “Cool Britannia”, celebrazione di una Gran Bretagna alla moda (“Britons [i Britannici, n.d.r.], ever ever ever shall be hip”), incontriamo la girandola di generi che è la cifra distintiva del disco.
Le prime prove discografiche dei Bonzos erano cover di classici dei 78 giri: in Gorilla lo spirito scanzonato dei tempi del cinema muto lo troviamo in “Jollity Farm” (l’originale fu incisa dal compositore britannico Leslie Sarony nel 1929), “I’m Bored” (la sezione centrale del pezzo rende appieno la noia del protagonista [“mortal bore”] poiché egli la sfoga canticchiandola sulle note di Fra Martino Campanaro), in “Mickey’s Son And Daughter” (con un irresistibile fischiettio che ricorda i nani di Biancaneve!) e nella meravigliosamente sgangherata “Jazz (Delicious Hot, Disgusting Cold)”, dove un gruppo di musicisti incapaci riesce nonostante tutto a suonare un pezzo dall’euforia coinvolgente.
L’influenza dei Beatles (per cui girarono una scena che ritroviamo in Magical Mystery Tour) è chiaramente percepibile nel baroque-pop di un’”Equestrian Statue” dominata da un classico assolo di clavicembalo. “Death Cab For Cutie”, il pezzo che i Bonzo eseguono in MMT con tanto di spogliarellista, è una divertente parodia dello stile sensuale di Elvis Presley; in “I Left My Heart In San Francisco”un cantante dalla voce suadente non riesce a cantare la sua canzone perché il pubblico, che evidentemente lo apprezza, continua ad interromperlo con applausi.
La diversità di generi non finisce qui, dal momento che incontriamo pezzi come “Look Out There’s A Monster Coming”, godibilissimo esempio di Calypso con una pennellata di elettronica (soprattutto in chiusura), “Big Shot”, interessante esercizio di musica da film noir (intrigante e misteriosa al tempo stesso), “Music For The Head Ballet”, pezzo strumentale in cui il suono meccanico di un Wurlitzer, al ritmo di un monotono waltzer contraddistinto da rari cambi di tempo, crea un’atmosfera decisamente circense; di memorabile resta da segnalare, in conclusione di questo rapido ritratto dell’album, “Piggy Bank Love”, carico di tutta la potenza e la svagatezza della Summer of Love.
Massimo Bonomo – Onda Musicale