“Chi ascolterà mai questa merda? Un cane?”. Così pare si fosse espresso Mike Love, membro di un dei più grandi gruppi statunitensi, i Beach Boys, quando ascoltò per la prima volta le canzoni di quello che, una volta compiuto, si sarebbe stagliato nel panorama musicale non solo del tempo ma di ogni tempo come uno dei capolavori destinati a non invecchiare mai.
La nascita di “Pet Sounds” – così lo battezzò Brian Wilson cogliendo un’opportunità nel commento inacidito di Love – si colloca in un’epoca in cui i giganti britannici ed americani erano impegnati nella straordinaria sfida di creare album che nella loro grandiosità rivoluzionassero il Rock ormai tradizionale – dandogli uno spessore artistico che lo poneva alla stessa altezza di Classica e Jazz – e che superassero, in magnificenza, quelli che la “concorrenza” dava alla luce con grandioso successo di pubblico e critica. Lo spessore dei nuovi grandi album era la naturale reazione al fatto che, per il mercato discografico, contassero di più i 45 giri; gli LP non erano concepiti poi tanto diversamente, dato che erano una semplice sequenza di canzoni messe insieme per sfornare un nuovo disco e per fare guadagni soddisfacenti, senza ambizioni artistiche di chissà che spessore.
Wilson, siamo nel dicembre 1965, si è preso una pausa dalle tournée per concentrarsi su una scrittura ed una composizione caratterizzate da una qualità più elevata del consueto. L’ascolto del nuovissimo “Rubber Soul”, ultima creazione dei Beatles, letteralmente lo conquista, dato che nel disco trova un prodotto di elevatissima ed omogenea caratura artistica (non più la solita sequenza di canzoni).
L’incontro con il paroliere Tony Asher è la sua benedizione, dal momento che in Asher Wilson trova colui che, dotato di grande sensibilità ed abilità, riesce a tradurre in poesia ciò che egli prova (sensazioni ed emozioni) e che desidera comunicare con le canzoni dipinte dalla sua creatività. Lo spazio che Brian dedica all’introspezione conferisce a “Pet Sounds” un deciso stacco rispetto alla maggioranza delle canzoni che i Beach Boys avevano scritto sino a quel momento, la messa in musica di un american dream fatto di surf in meravigliose giornate di sole, belle ragazze ed auto dal rombo seducente.
Il pubblico tende a cadere nel vizio dell’abitudine, più confortevole, e quindi è comprensibile come si sia potuto trovare un po’ spiazzato e forse disorientato da un “Pet Sounds” che metteva in discussione l’ottimismo del mondo perfetto del surf con interrogativi difficili da eludere, soprattutto riguardo l’ansia di diventare grandi (“Wouldn’t Be Nice”, il brano di apertura). Anche l’amore, cantato in gemme come “Don’t Talk (Put You Head On My Shoulder)” e “God Only Knows” (quest’ultima dal sapore quasi di preghiera, similmente a “You Still Believe in Me”) non è più il flirt dell’estate, ma un sentimento decisamente più maturo e profondo. Le emozioni personali invece sono quasi confessate in “I Wasn’t Made For These Times” (dichiarazione di un serpeggiante senso di estraniamento dal mondo e dal tempo in cui vive) e nella malinconia della relazione non corrisposta di “Caroline No”, con cui si chiude il disco.
“I Know There’s An Answer” invece si pone come soluzione positiva e decisa a coloro che si rifugiano nell’LSD per cercare risposta agli interrogativi dell’esistenza. “I’m Waiting For The Day” e “Sloop John B” (quest’ultima brano della tradizione musicale delle Bahamas) sono un’autentica gioia per le orecchie e per il cuore, meraviglie che risplendono ancor oggi.
Uniche due composizioni che Wilson scelse di lasciare senza testo (dato che riteneva che già la sola versione strumentale da sola fosse assai efficace), “Let’s Go Away For Awhile” e la title track “Pet Sounds”: il suo genio compositivo ha conferito loro un’armonia ed un respiro orchestrali e cinematografici. L’armonia e la qualità sublime non sono confinate a queste due perle, ma sono la cifra dominante che sorregge l’intera opera, caratterizzata dal ricorso ad una amplissima gamma di strumenti (oltre a quelli classici da orchestra anche quelli non convenzionali come trombette e campanelli, e sperimentali come il Theremin).
Parte fondamentale nella potenza del disco è la sua strabiliante qualità sonora, ottenuta anche grazie al ricorso alla celeberrima tecnica del Wall Of Sound, elaborata a partire dalla metà degli Anni ’60 dal noto Phil Spector (che ritroveremo nel 1970 a capo della criticata produzione di “Let It Be”). Nell’edizione del 2001 il disco fu riproposto in un unico CD che conteneva l’originale versione Mono e la superba limpidezza di quella Stereo.
L’estate della giovinezza, in quel 1966, stava finendo perché diventava più adulta, ma il capolavoro che il suo crepuscolo ci consegnava era un autentico monumento a disposizione delle generazioni a venire.
Massimo Bonomo – Onda Musicale