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The Kinks – Arthur [Or The Decline And Fall Of The British Empire] (1969)

1969: nella memorabile e longeva storia dei Kinks l’anno in questione costituisce un deciso punto di svolta. Dopo l’ennesimo flop, quello di Village Green Preservation Society” a fine 1968 Pete Quaife lascia per la seconda ed ultima volta il gruppo (la prima volta era stato nel 1966, a seguito di un incidente); anche questa volta il suo posto è preso da John Dalton.

Nell’incipit del nuovo capitolo della vita del gruppo si registra la revoca del bando statunitense ricevuto tra capo e collo quattro anni prima. La benevola misura è il preludio dell’avvio di un successo d’oltreoceano che sino a quel momento era mancato e che aveva conferito una marcatissima impronta british” al carattere della band. L’imminente conquista dell’America è accompagnata da un ricchissimo marketing al cui vertice vi è l’efficacissimo slogan God Save The Kinks” (che peraltro mi trova d’accordo!).

Tra i segnali che fanno ben sperare in un anno positivo, la proposta – già ai primi di Gennaio – che la Granada TV (azienda televisiva della Gran Bretagna occidentale) rivolge a Ray Davies affinché scriva e realizzi la colonna sonora di un eventuale film o di un television play (un film televisivo concepito come un’opera teatrale, genere molto in voga in GB negli anni Sessanta e Settanta). La genesi di Arthur, in poche parole.

Dato che television play e colonna sonora nascono in simbiosi, si capisce come Arthur (Or The Decline And Fall Of The British Empire)nasca come concept album, e come lo sia molto più di opere come Face to Face” e “Village Green Preservation Society”. La scrittura di Davies prende in prestito qualcosa dalle vicissitudini della sua famiglia: Arthur Morgan è il doppio di Arthur Anning, marito di quella sorella, Rose, con la quale si era trasferito in Australia” nel 1964. La finzione del racconto intreccia storia familiare e storia nazionale, o meglio, storia di un impero in declino. Morgan è un normalissimo tappezziere: la sua esistenza scorre nella vuota tranquillità delle comodità di quel piccolo mondo che è “Shangri-La”, cioè la sua casa londinese.

Il racconto del disco parte con l’enfasi della celebrazione dell’età d’oro dell’Impero Britannico, cioè l’età Vittoriana (1837-1901). Ma attenzione: è una retorica dal sapore agrodolce, dal momento che il protagonista è entusiasta di far parte di una nazione così potente nonostante non se la passi così bene economicamente («I was born, lucky me / In a land that I love / Though I am poor, I am free»).

La storia della Famiglia Morgan incrocia dolorosamente la Storia con la esse maiuscola in occasione della Prima Guerra Mondiale: il fratello di Arthur, Eddie, è tra i caduti della Battaglia della Somme (1916), una delle più grandi carneficine dell’intero conflitto. Il rifiuto della guerra è denunciato nell’apatia di “Yes Sir No Sir”, dove c’è spazio solo per l’obbedienza; pensare con la propria testa è vietato. L’altro pezzo di ambientazione bellica è “Some Mother Son”, dove le emozioni risuonano intensamente, perché non si può restare indifferenti di fronte ad una madre che perde il proprio figlio in guerra (un dolore che ancor oggi si ripete).

La guerra ricompare in un altro straordinario pezzo dell’album, “Mr. Churchill Says”, dove parte del testo è un fedele calco di parole effettivamente pronunciate dal grande statista («We shall fight them on the beaches / On the hills and in the fields / We shall fight them in the streets»), il quale spronò gli inglesi a resistere saldamente al logoramento nervoso dei bombardamenti tedeschi (la celeberrima Operazione Leone Marino).

Il clima della scena è reso realisticamente con l’inserimento della celebre e sinistra sirena da coprifuoco. Il secondo dopoguerra non è migliore del periodo bellico, dato che la penuria di beni costringe a tirare la cinghia: la coppia ritratta in “She’s Bought A Hat Like Princess Marina” arriva a dipingersi in modo grottesco con cappelli che rappresentano il tentativo di camuffare l’imbarazzo di mostrare in pubblico la propria povertà. Lo stile del pezzo esordisce con la pacata eleganza di un clavicembalo ma ben presto vira verso un charleston rintronato straordinariamente divertente.

Da questa vorticosa panoramica del disco emerge un ritratto impietoso del progressivo declino e della caduta di un Impero che un tempo fu glorioso (almeno così proclamava la retorica dominante). La coloritura niente affatto idilliaca del racconto potrebbe aver toccato nel vivo la classe politica britannica, decisa quindi a far fallire il progetto televisivo (così sostiene Ray Davies, molto probabilmente a ragione).

Peccato quindi che l’idea del film si sia dissolta nel nulla, ma ci consoliamo ogni volta che possiamo goderci lo straordinario spettacolo di quel capolavoro che è Arthur, il miglior album britannico del 1969secondo la definizione del critico Greil Marcus.

 

Massimo Bonomo – Onda Musicale

 

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Tags: Concept Album, Australia, The Kinks, Ray Davies, Face to Face
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