Siamo nell’Inghilterra del 1971 ed i mitici Who sono ancora ebbri dal giusto successo ottenuto con l’album, anzi l’opera rock per eccellenza, “Tommy” del 1969 e vogliono continuare su questa strada.
Un ispiratissimo Pete Townshend, infatti, si mette al lavoro su qualcosa di simile intitolandola “Lifehouse”, ma il progetto non vedrà mai la luce. Si salvano però una manciata di canzoni arricchite dalle sue sperimentazioni sonore con organi e synth. Diamoci un’occhiata:
“Baba O’Riley”: dopo la mitica e balbettante “My Generation” è il turno di un vero e proprio “monolite” nella discografia dei britannici Who che, anche i meno esperti della band, riconosceranno al primo ascolto grazie all’utilizzo di tale brano per la sigla di “C.S.I. New York”. Si comincia infatti con la sperimentazione di Townshend sui tasti dell’organo e del sintetizzatore, ma non temete, è praticamente impossibile che il buon vecchio Pete molli la sua mitica chitarra.
Il risultato è un tessuto sonoro intrigante ed ipnotico che cattura sin dal primo ascolto, ma non si parla solo di strumenti. Naturalmente l’accompagnamento ritmico firmato dai compianti Keith Moon e John Entwistle è una garanzia, ma la cosa che colpisce è la voce di un carichissimo Roger Daltrey che porta lettarlmente in un’altra dimensione.
Il testo, inizialmente pensato per un racconto fantascientifico intitolato “Lifehouse”, parla di un ragazzo che si è fatto praticamente da solo “rompendosi la schiena per sopravvivere” e che “non ha bisogno di lottare per provare che ha ragione”. Il problema è che il mondo attorno a lui e la bella Sally è una terra di “desolazione giovanile”, l’immagine s’imprime nella mente soprattutto grazie al violino di Dave Arbus mentre Moon riversa la sua energia su piatti e tamburi, e quindi l’unica cosa da fare è andare via verso un futuro migliore.
A questo punto l’unico “interrogativo” che rimane all’ascoltatore è il curioso titolo della canzone, che non compare neanche nel ritornello. Il titolo deriva dall’unione di due nomi e fonti d’ispirazione per la band, ovvero, il guru indiano Meher Baba ed il compositore minimalista americano Terry Riley.
PS, la canzone compare anche nella scena finale del film “La ragazza della porta accanto”. Cito questo esempio perché, qualche mese fa, io e la mia coinquilina (che saluto da qui) stavamo parlando di musica e lei mi stava dicendo di aver sentito una canzone che iniziava con il sintetizzatore, ma non ricordava bene il ritmo e neanche il titolo. Dopo circa un’ora di follia dove sono andato a ripescare metà repertorio degli anni ’70 – ’80 siamo finalmente arrivati alla conclusione che si trattava della mitica “Baba O’Riley”!
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“Bargain”: dopo la fantascienza e l’universo distopico si passa ad un altro tema caro per buona parte dei dischi rock, l’amore, ma stiamo parlando sempre degli Who e quindi non li sentiremo certo sdolcinati e zuccherosi come dei ragazzini piagnucolanti, ma sarcastici, elettrici ed innovativi!
Dopo l’iniziale giro di chitarra acustica, accompagnata da un bordone in lontananza, l’atmosfera si riempie nuovamente di elettricità e synth con un Daltrey ispiratissimo che canta dell’annullamento totale di un individuo nei confronti di un amore, sia una ragazza o anche Dio, che sembra “il miglior affare che abbia mai fatto”. Altro elemento che conferisce alla canzone quel qualcosa in più, oltre al tappeto sonoro di synth dove la band si diverte ad improvvisare sopra, è l’aggiunta della voce di Townshend. Delicata e timida è nettamente in contrasto con quella di Daltrey e, soprattutto, con il suo modo di suonare e stare sul palco!
“Love Ain’t For Keeping“: canzone straordinariamente breve, non si arriva neanche a due minuti e mezzo, dove compaiono molte sovraincisioni di chitarre acustiche dal vago sapore country e blues. Se confrontata con gli altri pezzi dell’album questo balza subito all’occhio per la sua spensieratezza e la coralità dove si canta di una pace quasi bucolica nel giardino di casa. Il bambino dorme, l’uomo sta sull’erba, la donna gli si avvicina ed il resto è magia sotto un cielo che sa di primavera, “l’amore non va trattenuto”.
“My Wife”: brano rockeggiante, e probabilmente autobiografico, scritto dal compianto bassista John Entwistle che narra della folle notte di un uomo fuori casa. Dopo aver bevuto per tutta la sera viene sbattuto nella cella degli ubriachi per la notte, ma al risveglio è colto da una grandissima paura. Come nelle commedie e nelle barzellette ora deve affrontare l’ira della moglie!
L’uomo infatti teme che lei pensi di essere stata tradita con un’altra donna. L’immagine della gelosia e della furia della consorte scatenano in lui tutta una serie di pensieri paranoici tanto che comincia a credere che la moglie voglia ucciderlo. Per “difendersi” dunque l’uomo le pensa davvero tutte. Da “un uomo con un mitra” che lo difenda, comprarsi “un carrarmato e un aereo”, ma anche una ben più classica “auto veloce”, l’importante è filarsela alla svelta.
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Da ricordare gli interventi orchestrali che fanno capire ancora meglio all’ascoltatore le paure e lo stato d’animo dello sventurato protagonista di questa storia.
“The Song Is Over”: il pianoforte suonato da Nicky Hopkins ed il ritmo malinconico, al pari del testo che narra di un amore ormai finito, ci riporta inizialmente in territori più affini al jazz o alle ballate più tenere, ma l’elettricità degli Who è impossibile da contenere. La cosa che colpisce è però questo continuo alternarsi tra atmosfere rilassanti ed altre più elettriche ed arrabbiate, merito anche del gioco tra le voci di Daltrey e Townshend che non lascia scampo soprattutto verso la fine. “La canzone è finita. Rimango con le mie sole lacrime, devo ricordarmelo, anche se ci volesse un milione di anni“.
“Getting In Tune”: il piano di Hopkins torna a colpire tessendo un delicato tappeto sonoro di note dove s’inserisce sinuosa la linea di basso firmata John Entwistle. Seguono ovviamente la voce di Daltrey e tutta l’energia che scaturisce dalla batteria di Moon e dalla chitarra di Townshend che non perde un riff. La canzone, anche questa partorita come colonna sonora di “Lifehouse”, parla del potere liberatorio della musica. Un potere che si sprigiona anche “solo martellando il mio vecchio piano”.
“Going Mobile”: ritornano le chitarre acustiche ed un ritmo decisamente più scanzonato che farà ricordare i T. Rex di Marc Bolan e, per il ritornello, i Beatles dei tempi di “Drive My Car”. Tra un crescendo di sintetizzatori e chitarre effettate la canzone parla della gioia e della comodità di avere un caravan, una vita un po’ da “zingari hippie”che al volante vanno via da inquinamento e restrizioni di qualsivoglia tipo.
“Behind Blue Eyes”: volete ascoltare una canzone con tutte le lettere maiuscole e che rappresenta al meglio gli Who del periodo? Beh, la ballata “Behind Blue Eyes” fa al caso vostro.
Malinconica, triste, arrabbiata, sarcastica, presenta la consueta alternanza tra sonorità acustiche ed elettriche che ha reso unica la mitica band albionica. Probabilmente l’avrete già sentita nominare per la cover fatta dai Limp Bizkit che, sorpresa delle sorprese, non è così male alla fine.
In ogni caso potrei anche versare un litro e più d’inchiostro per dirvi quanto questa canzone sia un dannatissimo capolavoro, ma la cosa migliore da fare è metterla a tutto volume e poi riascoltarla nuovamente!
“Won’t Get Fooled Again”: con i suoi otto minuti e mezzo questo brano è il più lungo di tutto il disco ed è anche uno dei più noti visto il suo utilizzo in serie, come la già citata “C.S.I.” oppure i “Simpson”, e film, pellicole che vanno da “Tenacious D e il destino del rock“ a “I Love Radio Rock“.
Una canzone in cui Townshend, qui autore delle musiche giocando con i sintetizzatori e la chitarra, e gli Who urlano il loro disprezzo verso i totalitarismi, non per niente il titolo vuol dire “non vogliamo essere ingannati di nuovo”.
Giudizio sintetico: semplicemente un capolavoro! Da avere assolutamente e da tramandare alle generazioni successive
Copertina: un monolite si erge in una landa desolata, chiaramente ispirata a “2001: Odissea nello spazio”di Stanley Kubrick, ed accanto a lui ci sono gli Who che si sono appena tirati su i calzoni visto che hanno pensato di usarlo come gabinetto d’emergenza
Etichetta: Decca Records
Formazione: Roger Daltrey (voce), Pete Townshend (chitarre, voce, organo e sintetizzatore), John Entwistle (basso, piano, voce) e Keith Moon (batteria e percussioni) oltre ai musicisti aggiuntivi già citati