Prosegue la rubrica “chitarre rock” in cui raccontiamo lo stile, il sound e le influenze che hanno determinato la peculiarità sonore di alcuni dei più grandi protagonisti delle sei corde e della musica contemporanea.
Oggi si parlerà di un altro grandissimo artista, un innovatore, un genio che forse ha pagato un carattere poco accondiscendente e una sperimentazione non alla portata di tutti: mr Jeff Beck.
A Beck avevo già fatto cenno nello scorso speciale dedicato a Jimmy Page, alludendo al passato comune negli Yardbirds. Mi piacerebbe riprendere proprio da lì, quasi a raccontare la stessa storia presa da un altro punto di vista. Come è ben noto, Jeff Beck fu chiamato dallo stesso Page – che in una prima fase aveva declinato l’invito a rimpiazzare Eric Clapton – per diventare il nuovo chitarrista principale degli Yardbirds. Anche lui aveva avuto diverse esperienze da session man in giro per il Regno Unito ma nessuna come facente parte in pianta stabile di una band, perlomeno non in un gruppo già abbastanza famoso e ben collaudato come erano gli Yardbirds. Nel 1965, anno in cui Geoffrey Arnold (questo il suo nome all’anagrafe) entra a far parte della band, gli Yardbirds erano per tutti il gruppo di Slowhand e chiunque avesse accettato di sostituirsi a lui avrebbe dovuto fare i conti con questo.
A differenza di quanto sarebbe accaduto successivamente con Page, con la band ormai in frantumi e buona parte dei componenti originari sostituiti da nuovi musicisti, in quei mesi gli Yardbirds vivevano un momento di coesione e entusiasmo comune che avrebbe reso particolarmente difficile stravolgere la base, come sarebbe accaduto invece sul finire dei Sessanta. Non a caso, dopo due singoli (For Your Love e Having a Rave Up)in cui il contributo di Beck sarebbe stato decisamente limitato, è nel 1966 che gli Yardbirds furono lanciati in alto nelle classifiche britanniche con il loro primo album vero e proprio, con pezzi inediti che non sempre ristagnavano nel classico Rhythm and blues o il pop di quegli anni. Robert the Engineer è uno dei dischi più importanti di quella fase storica e per un insieme di mirabili motivi. Ha un sound che si rispecchia perfettamente nei gusti dell’epoca, vi sono tracce di una sperimentazione che, di lì a poco, avrebbe invaso l’intero panorama anglosassone e non solo, ed è il primo disco in cui si può apprezzare il genio creativo di Jeff Beck.
Infatti, pur mantenendo la sua posizione defilata rispetto agli altri componenti del gruppo, senza eccedere in protagonismi o manipolarne troppo il sound, ampiamente collaudato, Jeff riesce a imporsi con il suo stile unico, un sound avanti anni luce rispetto a tutti i chitarristi di quella generazione e la padronanza di tecniche ancora sconosciute alla maggior parte dei chitarristi di quell’epoca. In questo disco infatti, si trovano usi sapienti e già molto sviluppati dell’hammer on e del pull-off, alcuni accenni a una tecnica ibrida di tapping (ben prima di Van Allen, pur senza il medesimo virtuosismo) e una rapidità del fraseggio difficile da riscontrare anche in chitarristi più evoluti e recenti.
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Ascoltando alcune canzoni come “Jeff’s Boogie” – vero proprio manifesto di un chitarrismo nuovo, asistematico e privo di schematizzazioni rigide (riff, ritornello, bridge, riff, ecc…) in grado di sintetizzare tradizioni distanti tra loro: dal rockabilly al blues, dal pop al country – si poteva già intuire di che pasta fosse fatto il nuovo chitarrista. Ben diverso come impostazione di base rispetto a Clapton – molto più “scolarizzato” a suon di dodici battute – Beck in quel disco sfoggia un tocco del tutto personale, una voce propria e quel carattere che avrebbe portato con sé nel corso della sua lunga carriere. In effetti, ad ascoltare quella registrazione, in particolare la versione mono del disco del 1966, Jeff Beck sembra essere l’unico musicista in una band, priva di veri e propri fenomeni, ad appartenere al futuro e non sapere già di “rivisto”.
In quegli anni Jeff Beck suonava soprattutto una Fender Telecaster che avrebbe più volte ripreso e modificato nel corso del tempo. La scelta di questo modello non deve essere stata casuale. Per quanto la telecaster avesse rappresentato un punto di riferimento nel mondo delle bistrattate chitarre single coil per tutti i chitarristi di quella generazione (prima della rivoluzione hendrixiana firmata strato caste) l’affetto per questo modello sarebbe stato rafforzato da una delle principali fonti di ispirazione per il chitarrismo del nostro.
Infatti, Jeff Beck non ha mai nascosto – anche perché i riferimenti sonori sono abbastanza evidenti – la sua ammirazione verso il suono, lo stile e le innovazioni apportate alla mondo della chitarra elettrica da Roy Buchanan: dagli armonici artificiali (pinch armonics) fino al celeberrimo effetto violino, giocando con la manopola di volume della chitarra per togliere l’attacco della nota. Beck ha fatto uso ed abuso di simili accorgimenti per condire le sue composizioni e improvvisazioni, un esempio abbastanza evidente e famoso è quello di una delle sue canzoni strumentali più conosciute: “Cause We’ve Ended as Lovers”.
Dopo gli Yardbirds, lasciati dopo poco più di un anno, Jeff Beck fonderà la prima formazione con il nome Jeff Beck Group, un supergruppo che vedeva tra i suoi componenti il pianista Nicky Hopkins, il batterista Mick Waller e, dulcis in fundo, la voce di Rod Steward e il basso di Ronnie Wood (le due teste di diamante che avrebbero fondato i leggendari Faces). Il disco “Truth” del 1968 è un altro brillante esempio di innovazione e splendido manifesto di creatività ed eclettismo. Basti pensare che il sound di questo avrebbe influenzato – alcuni parlano addirittura di plagio – il primo dei Led Zeppelin di qualche anno successivo, diventando l’LP di rifermento per la nascita dell’Hard Rock di inizio anni Settanta (forse anche perché i Faces nacquero dopo poco più di un paio d’anni dallo scioglimento della formazione).
Anche in questo caso è difficile riuscire a categorizzare in generi predefiniti il playing di Beck perché ascoltare la sua chitarra in quegli anni voleva dire confrontarsi con le influenze della musica folk tradizionale inglese di “Greenselves”, senza dimenticare minimamente gli standard della tradizione blues, come “I Ain’t Superstitious” di Willie Dixon, o il passato recente yarbirdsiano di tracce come “Shape of Things”.
Potenza, calore, eclettismo caratterizzano il suono della sua chitarra in quegli anni. Non di rado l’ascoltatore può essere sorpreso da soluzioni insolite come delle brusche interruzioni durante un semplice tourn around blues, slides particolarmente estremi e colorati sfruttando la distorsione della chitarra, o fraseggi privi di uno schema riscontrabile nel classico repertorio rock-blues che si ispirano al canto o alla tecnica di base di altri strumenti. Anche questo probabilmente vedeva in Roy Buchannan il principale punto di riferimento, ma non si deve dimenticare che Jeff Beck, in una prima fase dalla sua carriera musicale, aveva studiato canto e avuto qualche esperienza con strumenti a fiato per accompagnare i cori delle chiese.
Questa tendenza a portare all’interno del classico fraseggio pentatonico della chitarra influenze molto diverse, portò Beck ad esplorare atmosfere sempre nuove di cui il disco “Blow by Blow” del 1975 è espressione lampante. Con quel lavoro Jeff mostra una maturità chitarristica del tutto acquisita, con uno stile sempre più unico e privo di riferimenti immediati riscontrabili nella realtà musicale circostante. Non è un caso il fatto che per molti, proprio a partire da “Blow by Blow”, Jeff Beck rappresenti il primo esponente di una chitarra fusion propriamente detta.
Ma anche in questo caso incasellare il playing eclettico di questo artista in un canone vorrebbe dire raccontare una mezza verità. Già il disco del 1975 conferma e smentisce allo stesso tempo tale definizione, con pezzi come “Scatterbrain” in cui il suono della chitarra elettrica sovrasta e si mischia all’elettronica, risultando più prossimo a quello di un moog che a quello di una Les Paul; o in “She’s a Woman” in cui, unito al suo fraseggio atipico, Beck riesce a far “parlare” la sua chitarra grazie all’utilizzo del talk box.
Ma il 1975 è anche l’anno del primo grande rischio discografico di Jeff Beck che inizia a proporre opere sempre più raffinate ma complesse musicalmente parlando, in cui nulla appare mai scontato, neanche la struttura stessa della canzone e del testo. Non a caso infatti, in tutta la sua carriera successiva saranno pochissimi i dischi in cui sarebbe stata presente una voce umana, le sue tracce sono prevalentemente strumentali ed hanno più il sapore di bizzarri e affascinanti prototipi musicali che di canzoni, il che avrebbe influenzato pesantemente l’immediatezza della fruizione della musica e le vendite. Infatti, sul finire dei Settanta, con l’esplosione dell’heavy metal e di numerosi virtuosi della chitarra, Beck porta all’estremo il suo playing passando dalla Gibson Les Paul (che da qualche anno aveva preso il posto della storica Telecaster) alla Fender stratocaster.
La scuola hendrixiana e l’impostazione rumoristica mutuata dal leggendario chitarrista americano influenzeranno pesantemente la continua evoluzione di Beck. Tramite l’uso estremo della Whammy Bar della strato, Jeff sarà in grado di creare tracce ai confini tra l’industrial metal e la musica elettronica degli ultimi anni, un esempio abbastanza estremo è “Pull It” (2016), in cui questi suona la chitarra con una tecnica tutta personale prossima allo scratch dell’Hip Hop, impensabile per un chitarrista della sua generazione. Ma allo stesso tempo con l’uso estremo della leva, e pizzicando le corda soltanto con le dita e mai con il plettro, Jeff riesce a imprimere un tocco particolarmente lirico e ricco di carica emotiva ad alcune sue tracce. Un esempio tra i tanti potrebbe essere quello di “Where Were You” (1989) dove proprio grazie alla sua particolarissima tecnica la chitarra può toccare sonorità uniche, irriproducibili in alcun modo con alcuno strumento, e in grado di emozionare come pochi.
Jeff Beck oggi rappresenta esattamente questo, il chitarrista più moderno della sua generazione e il più eclettico ed innovativo tra i tanti di quelle successive. Ha stravolto il modo di intendere la chitarra, stravolgendo il modo stesso di suonarla, cercando di inventare approcci sempre nuovi pur partendo da una tradizione da cui pare essere sempre più lontano. Il disco del 2007 You Had is Coming, per riportare un esempio, contiene numerosi cenni a questa tradizione, come ad esempio “Rolling and Tumbling”, uno standard blues suonato da una chitarra spaziale con una tecnica slide anticonvenzionale e irrispettosa degli irrigidimenti di genere e stile.
Beck, in termini di successo, ha pagato probabilmente il fatto di aver cercato di precorrere eccessivamente i tempi, nonostante fosse – e sia ancora – considerato da tutti come uno, se non il più grande, dei chitarristi ancora in attività. I numerosi dischi, i concerti, le partecipazioni in studio (alcune celeberrime, come Superstitioncon Stevie Wonder, sua vera e propria creazione) come le ospitate sui palchi più importanti del mondo, sono una dimostrazione di forza e di come il gusto personale, l’eclettismo e la capacità di pensiero trasversale vadano oltre ogni categorizzazione di suono, epoca e stile.
Ed è qui che Jeff Beck vince sempre la sua battaglia, con un pensiero musicale inafferrabile, in grado come sempre di stupire e di apparire come mai scontato, impossibile da contenere… soprattutto nelle poche parole di un articolo come questo.
Ascolti consigliati:
– Robert the Engineer
– Truth
– Bow by Blow
– Wired
– Jeff
– You Had is Coming
Bonus:
– Amused to Death (Roger Waters)