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Pete Best: l’ex batterista dei Beatles ad un passo dal paradiso

Liverpool, anni 80. In un ufficio di collocamento un impiegato è alle prese con scartoffie e moduli da compilare, mentre la gente preme contro lo sportello per avere informazioni. Reclamano un lavoro e, come spesso accade, riversano la loro frustrazione sugli impiegati. 

Il signor Pete non si scompone, vorrebbe dire a tutti loro che non è facile neanche per lui, che guadagna poco e fa un lavoro stressante. Quello che non sanno, e che lui da vent’anni si porta dietro come un rimpianto, è che a lavorare in quell’asettico ufficio di collocamento perso nel grigiore di Liverpool non c’è il semplice impiegato Pete, ma quello che un tempo era il batterista dei Beatles.

Nel 1960 i Quarrymen sentivano di dover dare una svolta alla loro carriera. La band di Liverpool, composta da quattro ragazzi nemmeno ventenni, non era soddisfatta del nome e non poteva contare su un batterista fisso. I membri erano tre chitarristi (John Lennon, Paul McCartney e il giovanissimo George Harrison) e un bassista (Stuart Sutcliffe). Ovviarono presto al problema del nome scegliendo The Beatles, un gioco di parole tra beetles (coleotteri) e beat (lo stile musicale), mentre la ricerca del batterista fu più laboriosa.

Dovevano andare in tour in Germania, ad Amburgo, e prima della partenza girarono per i locali di Liverpool per assistere ai concerti delle più rinomate band locali. Una sera al Casbah suonavano i Blackjacks, dei giovani che avevano alla batteria il figlio di Mona, la proprietaria del locale. John e Paul capirono le potenzialità del ragazzo e senza indugiare gli fecero la proposta. Pete Best accettò e divenne il batterista dei Beatles.

Partiti alla volta di Amburgo, dove suonarono dal 1960 al 1962 facendosi le ossa, ancora sconosciuti e senza aver pubblicato ancora nemmeno un brano, si delinearono delle nuove dinamiche all’interno del gruppo. Pete, oltre a essere un ottimo batterista, era un ragazzo affascinante – anche troppo, secondo gli altri membri della band. Le ragazze durante i concerti urlavano il suo nome, lo seguivano nei camerini e non perdevano occasione per mostrargli la loro infatuazione, tanto che in alcuni concerti fu addirittura cambiato l’assetto sul palco, spostando la batteria più avanti, in modo da rendere Pete più visibile al pubblico femminile.

Un tempo era soprattutto Paul a riscuotere il maggior successo su quella fetta di pubblico, e si sentì messo da parte. Inoltre Pete era distante dallo stile di vita degli altri componenti: timido e taciturno, non si lasciava coinvolgere nelle bravate di John e non si unì all’uso smodato di Preludin, anfetamine che gli altri tre assumevano regolarmente. Quando poi i Beatles iniziarono a pettinarsi con la frangetta e a indossare giacche di pelle, Pete insistette per mantenere la sua capigliatura originale e continuò a esibirsi in camicia. Era un corpo estraneo all’interno della band. Il periodo amburghese proseguì tra concerti di “formazione” ed eccessi di ogni tipo. Una sera diedero fuoco alla loro stanza d’albergo. Furono cacciati. Pete intanto, morigerato e allergico alle sregolatezze, manteneva i contatti con sua madre, Mona, che anche a distanza aiutava la band a farsi un nome attraverso l’organizzazione di concerti e la gestione generale dei loro spostamenti.

La figura della madre fu di notevole importanza per la crescita umana e musicale di Pete. Nato in India, si trasferì a Liverpool con lei e con il patrigno all’età di quattro anni. Mona era ambiziosa e aveva deciso di rischiare il tutto per tutto: impegnò i gioielli di famiglia e puntò quei soldi in una corsa di cavalli. Vinse. Con quei soldi comprò un’ampia casa vittoriana, una batteria per il figlio e trasformò lo scantinato di casa nel locale Casbah. Fu dunque normale che venisse costantemente aggiornata dopo ogni concerto ad Amburgo, parlando delle dinamiche interne della band e della difficoltà del figlio a inserirsi.

Quando tornarono a Liverpool, nel 1962, i Beatles trovarono nel Cavern Club (leggi l’articolo) il locale ideale per suonare e radunare i giovani della città. Qui conobbero Brian Epstein, che divenne il loro manager e riuscì a procurar loro un provino agli studi EMI di Abbey Road, a Londra. (leggi l’articolo)

La formazione era cambiata: Paul era passato al basso, mentre Stuart aveva abbandonato la band per restare ad Amburgo e dedicarsi agli studi artistici. La sua carriera da pittore non cominciò nemmeno: il 10 aprile del 1962 morì per un’emorragia cerebrale, a soli 21 anni. La notizia sconvolse i Beatles, che in seguito, come omaggio, ritrassero Stuart sulla storica copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band. Ma il loro mondo non poteva fermarsi, ad attenderli c’era il provino più importante della loro vita. Il produttore George Martin (leggi l’articolo) era il responsabile della Parlophone, etichetta della scuderia EMI che si occupava prevalentemente di jazz e di musica classica.

Quando però assistette all’audizione dei Beatles, il 6 giugno del 1962, qualcosa gli solleticò il cervello. Non aveva mai sentito qualcosa del genere: la freschezza dirompente della band lo travolse insieme all’impatto delle melodie e alla coesione sonora del gruppo. Prese da parte Epstein e si mostrò euforico, comunicandogli che avrebbe prodotto i Beatles. C’era però un piccolo dettaglio da limare. Martin non era soddisfatto di un membro, individuato come anello debole della band. Più che un consiglio diede ad Epstein un ordine: Pete Best andava sostituito.

John, Paul e George si trovavano tra due fuochi: da un lato l’irrefrenabile gioia per l’opportunità di registrare il primo disco, dall’altro l’incombenza di una scelta dolorosa – nonostante le diversità Pete era comunque ormai “uno di loro”– che non era stata preventivata. Si fecero quindi forza e comunicarono la decisione a Pete: fu cacciato dal gruppo nell’agosto del 1962. Al suo posto entrò nei Beatles Ringo Starr, precedentemente batterista della band Rory Storm and the Hurricanes.

Neil Aspinall, il road manager dei fab four, era molto affezionato a Pete e non la prese bene: nei primi tempi si rifiutò di montare e smontare la batteria di Ringo sul palco. Persino Lennon fece fatica ad accettare quella scelta, seppur inevitabile. Anni dopo, come riporta la Beatles Anthology, dichiarò di essersi sentito in colpa per parecchio tempo, perché cacciare Pete fu “da vigliacchi”. Con il passare dei mesi l’ingresso di Ringo fu metabolizzato, il nuovo batterista divenne parte integrante del gruppo, membro fondamentale per far sì che tutte le anime dei Beatles collimassero in un unico nucleo. Arrivò il primo singolo, il primo disco, il successo. Il resto è Storia.

Pete non si perse d’animo. Pur scottato per l’esclusione dai Beatles a un passo dal sogno, continuò a barcamenarsi alla ricerca del successo nel mondo della musica. Si unì al gruppo Lee Curtis & The All Stars, poi creò, insieme al prezioso contributo di sua madre, il complesso Pete Best Four, rinominato in seguito Pete Best Combo. Ma i progetti non decollarono. Nel frattempo i Beatles avevano già conquistato il mondo, lasciando a Pete l’amara sensazione di aver perso il biglietto vincente della lotteria. Nel gioco delle sliding doors viene facile chiedersi come sarebbe diventata la vita di Pete se non fosse stato cacciato dai Beatles un attimo prima della gloria. L’evanescenza del what-if  lascia spazio all’asprezza della realtà, con Pete che fu costretto ad abbandonare il mondo della musica e a rimboccarsi le maniche in un ufficio di collocamento a Liverpool, dimenticato dal mondo.

A metà anni 90, in occasione dell’uscita dell’Anthology 1 – una raccolta di demo e inediti dei Beatles che comprendeva anche alcune versioni di brani con Pete alla batteria – quest’ultimo ricevette una sorta di risarcimento postumo per il licenziamento di trent’anni prima. Un assegno da 8 milioni di dollari, per l’esattezza. La sua vita cambiò. Non soltanto economicamente: si era chiuso un cerchio, il rimpianto per un’occasione sfumata si trasformò nell’orgoglio di aver comunque suonato nei Beatles. La sua divenne una figura di culto, fu definito il “quinto Beatles” (termine in realtà abusato, poiché appioppato a Martin, Epstein e ad altri personaggi), e riprese a suonare.

Tra eventi in onore dei Beatles e concerti personali, Pete iniziò a girare il mondo, pagato profumatamente. Quello che un tempo era per lui il marchio dell’infamia, il ricordo da debellare per andare avanti, si è trasformato in un’occasione di rilancio. E pazienza se Marge Simpson passa la vita a spedire lettere a Ringo e non a lui.

 (di Mattia Madonia – link)

— Onda Musicale

Tags: John Lennon, The Beatles, Ringo Starr, Paul McCartney, Germania, Amburgo, George Harrison, Brian Epstein, Pete Best, Quarrymen, Stuart Sutcliffe, Neil Aspinall
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