Help Us Stranger segna il ritorno di una delle tante creature del vulcanico Jack White, a ben undici anni da Consolers Of The Lonely. Vediamo il perché della lunga attesa e, soprattutto, se ne è valsa la pena.
Jack White fa parte di quella lunga lista di artisti geniali e dispersivi, un po’ un Leonardo Da Vinci del rock, tanto estroso e virtuoso quanto incapace spesso di focalizzare i suoi tanti talenti. Ed ecco così il nostro archiviare l’esperienza che lo ha rivelato al mondo, il grezzo duo di punk blues dei White Stripes – non senza aver dato il là a una serie di epigoni, dai Black Keys ai nostrani Bud Spencer Blues Explosion – per darsi alle più disparate esperienze. Nascono così i Raconteurs, poi i Dead Weather, mentre Jack avvia anche una discontinua carriera solista e si diletta in mille collaborazioni e come talent scout per la sua Third Man di Nashville.
Un talento difficile da arginare e si sa, i talenti se non sono ben condotti rischiano di finire sprecati; un’impresa, quella di tenere White ancorato alla realtà, che è sempre ben riuscita ai compagni di viaggio nel supergruppo dei Raconteurs. Brendan Benson, innanzitutto, più grande di cinque anni, sghembo menestrello di un rock suonato come Dio comanda ma sempre a un passo e più dal successo. E Jack Lawrence e Patrick Keeler, basso e batteria, stantuffi della sezione ritmica già nei sottovalutati – e splendidi – Greenhornes, una delle più valide compagini di garage rock.
Undici anni sono tanti, però, e, come spesso accade, il ritorno atteso dapprima spasmodicamente, poi con speranzosa rassegnazione, rischia di arrivare quando i fan della prima ora si sono ormai consolati in altro modo. Del resto ora i componenti della band veleggiano verso il mezzo secolo e, a parte il bizzoso Jack, i caratteri si sono temperati; difficile dunque aspettarsi il furente e sincero rock’n’roll degli inizi. Eppure Help Us Stranger è un buon disco, specie in tempi di magra per chi ama il suono delle chitarre distorte e il tiro di una sezione ritmica che fa scintille. Il sound anni ’60 e ’70 è ben omaggiato ma la band cerca di superarlo, usandolo come punto di partenza per qualcosa di più contemporaneo. Decidete voi se la cosa è positiva o meno.
Si parte subito forte con Bored And Razed; l’inizio sembra quasi una jam dei Grateful Dead, poi il sound si ispessisce e velocizza, fino ad aprirsi in un ritornello fin troppo solare. Un pezzo riuscito a metà. Stesso discorso per la titletrack che inizia con un gracchiante country alla Elvis, equalizzato in modo da sembrar uscire da una radio a valvole del ’54, per poi trasformarsi in un country rock piuttosto canonico. L’ispirazione blues di Jack White sembra in questo disco completamente abbandonata a favore di tragitti più country e garage, ben tracciati dai compagni di viaggio.
Only Childparte come una bella ballata acustica per poi crescere senza però stregare; vorrebbe volare dalle parti di Neil Young ma rimane più da quelle degli estinti Jet. In alcuni passaggi i White Stripes sono fortemente cercati, con risultati non sempre proficui; parliamo di Don’t Bother Me, dalle felici intuizioni ma resa poco digeribile dal cantato quasi rap sopra le righe di White, ma anche della beatlesiana Shine The Light On Me – numero piuttosto riuscito – Live A Lie e What’s Yours And Mine.
I passaggi più a fuoco sono sorprendentemente – ma nemmeno tanto, forse – quelli in cui Benson si prende la scena. Somedays (I Don’t Feel Like Trying) è forse il pezzo forte del lavoro; una stupenda ballata southern rock con qualche rimando ai Lynyrd Skynyrd. Un pezzo di rock tradizionale che suona veramente come ogni buon appassionato vorrebbe che il rock continuasse a suonare. Ma anche Now That You’re Gone fa il suo sporco lavoro.
Una menzione a parte per Hey Gip (Dig The Slowness), cover di un pezzo acustico di Donovan, virato in una versione garage blues che sembra uscita dritta dai sixties degli Yardbirds, e per Sunday Driver, che suona più Stones dei Rolling Stones.
Help Us Stranger è un lavoro che si fa ascoltare con piacere dagli appassionati del rock più tradizionale, senza essere né troppo nostalgico né troppo innovativo; si presta a un ascolto leggero pur avendo testi – se li si analizza – non troppo allegri e con passaggi al limite della depressione – Some days, I just feel like crying/Some days, I don’t feel like trying, canta Benson.
Un ritorno gradito e gradevole, ma ben lontano da lasciare quel segno che sempre ci si aspetta dall’estro di Jack White.