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I 50 anni di “The Soft Parade”: è davvero il peggior album dei Doors?

Proprio in questi giorni The Soft Parade, quarto album dei Doors, compie cinquant’anni. Da sempre il lavoro si porta appresso la poco felice nomea di punto più basso della loro carriera, ma è davvero così? Lo scopriremo più avanti.

I Doors sono uno dei fenomeni del rock a cavallo degli anni sessanta e settanta più duri a morire. Una discografia di sei album e altrettanti anni di carriera sono valsi alla band di Venice Beach, California, un posto nell’immortalità. Il faccione di Jim Morrison continua a osservarci dalle t-shirt e dagli adesivi sul retro di qualche auto di hippie fuori stagione, rivaleggiando quanto a forza iconica solo col sempreverde Che Guevara. Forse solo l’avvento del web, paradossalmente, ha tolto un po’ di spinta propulsiva al mito, rendendolo troppo a portata di mano.

Ed è proprio il mito, con le sue derive più assurde che vorrebbero Jim ancora vivo chissà dove, rischia di togliere spazio all’importanza che davvero ebbero i Doors nella storia del rock e del suo periodo aureo. Il pericolo è di ricordare più le bizzarrie dell’uomo che non le grandi innovazioni di una band rivoluzionaria per attitudine e tecnica.

Proprio la tecnica, innanzitutto; la mancanza del basso, per dire, non era certo faccenda di tutti i giorni per un gruppo rock del 1965. Eppure proprio le linee di basso tracciate dall’organo di Ray Manzarek erano il marchio di fabbrica del loro sound grezzo, derivante dal blues ma non avulso da pulsioni più classiche e strutturate. Linee di basso che spesso era impossibile replicare col basso elettrico vero e proprio. La chitarra di Robbie Krieger, sempre un passo indietro, era suonata con misurata maestria; inoltre al buon Robbie, ben lontano dalla figura di Guitar Hero, si devono geniali intuizioni compositive come Light My Fire. E mentre la batteria di John Densmore garantiva sempre il giusto tiro ritmico, la genialità vera e propria emergeva con Jim Morrison.

Morrison aveva trascorso infanzia e adolescenza spostandosi negli USA a seguito del padre, militare in carriera, senza allacciare significativi rapporti umani e con un’ossessione per i poeti maledetti. Ispirandosi alle Porte della percezione di Aldous Huxley, ribattezzò The Doors il gruppo Rick & The Ravens fondato da Manzarek coi fratelli. Come si fa ad avere successo? Inventando qualcosa che ancora non c’è. Ed è qui che il genio visionario va contestualizzato. Siamo in pieno Flower Power, in California, e le band predicano con gentilezza la pace e l’amore, sballandosi il giusto per delirare di fiori e cannoni. Non esiste ancora la figura della rockstar violenta e instabile che dal palco aggredisce, affascina e mette alla prova i suoi stessi fan. Morrison, dotato di indubbio carisma e di un fascino maledetto, la inventa e si assicura il mito.

Eppure quel mito, nel 1969, sta già vacillando. È messo a dura prova dallo smodato impiego di droghe, da crescenti problemi psichici e dal rifugio della mera provocazione, dove Jim si trincera sempre più spesso. In questo clima di ispirazione logora, conflitti interni e pressioni discografiche, che nasce The Soft Parade.

La domanda, innanzitutto: The Soft Parade è davvero il peggior disco dei Doors? La risposta per una volta è semplice. Sì. E per distacco.

The Soft Parade, osteggiato per anni, benché oggetto di un tentativo recente di rivalutazione è un disco davvero pessimo. Sovraprodotto, con arrangiamenti ridondanti e scevro di qualsiasi credibile ispirazione. “Le cose ci sfuggirono un po’ di mano, ed impiegammo troppo per realizzarlo. Ci vollero più di nove mesi. Un album dovrebbe essere come un libro di racconti con un unico filo conduttore, dovrebbe avere uno stesso feeling e uno stile armonioso, il che è proprio quello che manca a The Soft Parade” – è la famosa dichiarazione con cui Jim Morrison consegna alla storia l’album. Krieger ne pare blandamente soddisfatto, mentre Manzarek ammette l’estemporaneo tentativo di inserire archi e fiati così, per vedere che effetto fa. Più, forse – aggiungo io – per nascondere la pochezza delle canzoni.

Tell All The People ha il sempre delicato compito di aprire le danze. A detta di molti, è il peggior brano registrato dai Doors. L’assurda prevalenza dei fiati nell’arrangiamento, la stanchezza vocale di Morrison, che pare un anziano crooner anziché il giovane incendiario di due anni prima, un incedere che non presenta un’idea valida che sia una. Da dimenticare. Touch Me è un pezzo in stile Light My Fire, sempre dovuto a Krieger, ma in tono assolutamente minore. Se non fosse mortificato da un arrangiamento quasi da balera, sarebbe potuto essere un buon brano. È passato alla storia per due motivi che esulano dalla musica; era la canzone che i Doors stavano suonando a Miami quando Jim si macchiò del celebre atto osceno che gli costò una dura condanna e l’odio dei compagni di band; inoltre fu al centro di una querelle per una frase che plagiava uno spot del colosso Colgate. I Doors alla fine li dovettero risarcire.

Shaman’s Blues presenta qualche idea e affinità coi Doors classici; peccato che la voce di Jim nel missaggio sembri arrivare dalla profondità di un pozzo e la chitarra di Krieger non abbia il giusto spazio. Belle le parti d’organo di Manzarek. Gli altri pezzi – il country di Easy Ride, l’insensata litania di Do It – sono uno peggio dell’altro, compresa la pseudo suite della title track. Si salva il riff di Wild Child, impreziosito dalla slide guitar di Robbie Krieger.

Messi da parte per un paio d’anni i deliri psico lisergici di Morrison, ci sarà ancora spazio per due episodi degni del mito Doors: Roadhouse Blues e soprattutto L.A. Woman segnano il ritorno ad atmosfere più grezze e blues, con alcuni numeri che entreranno nel mito. La stessa Roadhouse Blues e Riders In The Storm, su tutte.

Ma non c’era nulla da fare, la crepa che si era aperta con The Soft Parade, fatta di abusi e problemi psichici, avrebbe ingoiato di lì a poco Morrison – morirà a Parigi nel 1971 – e gli stessi Doors, che non riuscirono mai a superare la perdita del carismatico leader. Un po’ come succederà anni dopo ai Queen.

— Onda Musicale

Tags: The Doors, Jim Morrison, John Densmore, Ray Manzarek
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