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“Led Zeppelin II”, alle radici dell’hard rock

Il 22 ottobre del 1969 non è passato nemmeno un anno da quando il primo disco dei Led Zeppelin era arrivato come un fulmine a ciel sereno nel florido mercato del rock. L’album aveva segnato un vero spartiacque nel passaggio dal rock blues all’hard rock.

Certo, i Led Zeppelin non avevano poi inventato nulla di nuovo, e tanti altri gruppi avevano già proposto suoni altrettanto duri; i Cream, tanto per cominciare, di cui secondo molti Page e soci continuarono il discorso interrotto dal repentino scioglimento, ma anche gli stessi Yardbirds di cui i Led Zeppelin erano emanazione, o certe cose di Jeff Beck e di altre band minori che andavano via via inasprendo i suoni; tuttavia il sound dei Led Zeppelin era risultato essere la quadratura del cerchio. Seppure ancora legato a doppio filo con gli stilemi blues – e del resto la metà dei brani del primo disco sono veri e propri scippi al repertorio blues – mai si era vista una tale potenza di fuoco: la voce di Robert Plant, ricca di vocalizzi e virtuosismi, abbinata alla sua sfrontatezza da vero animale da palcoscenico; la chitarra di Jimmy Page, superveloce e sempre sopra le righe; l’incredibile potenza del drumming di John “Bonzo” Bonham; infine il bassista e polistrumentista John Paul Jones, sottovalutato elemento che riesce sempre a fare da collante tra le personalità egomaniache dei compagni.

Il 1969 passa tra tour devastanti: Usa, Gran Bretagna, Scandinavia. Tutto il mondo deve conoscere il verbo dei nuovi dei del rock e i ragazzi, giovanissimi ed entusiasti per aver finalmente acchiappato lo status di star e pungolati da manager spietati, non si fanno pregare. Ma serve altro materiale e così i quattro ci danno dentro dove e come possono; scrivono durante i viaggi, provano nei soundcheck anziché suonare i pezzi in scaletta e registrano in giro per il mondo, a volte con mezzi non proprio sontuosi.

Il risultato è “Led Zeppelin II”, così battezzato con spiccata fantasia, ed è un risultato che entra nella leggenda da subito, riuscendo nonostante la gestazione avventurosa a non essere semplice emulazione del primo lavoro, ma a portare avanti l’evoluzione del suono della band, tracciando le coordinate hard rock che decine di gruppi seguiranno senza raggiungerne la potenza.

Caliamoci nei panni dell’ignaro ascoltatore che quel 22 ottobre del 1969 si fosse accinto a mettere sul piatto il vinile di “Led Zeppelin II”: il fruscio della puntina, un accenno di risata e parte il riff di “Whole Lotta Love”. Il brano è ora assurto a standard del rock e non solo, utilizzato fino alla nausea per sigle, talent e chissà cos’altro. Immaginate l’effetto che poteva avere all’epoca, quand’era nuovo di zecca e mai sentito: devastante.

La chitarra di Jimmy Page apre il disco tracciando il memorabile riff, certo rubato al blues di Willie Dixon ma rielaborato con geniale semplicità, presto doppiata dal potente basso di Jones; Robert Plant inizia a miagolare il suo blues sofferto e malizioso e, a questo punto, manca solo la batteria di “Bonzo”, che arriva puntuale, precisa e potente come sempre.

Un intermezzo rumoristico e le urla sguaiate e orgasmiche di Plant introducono l’assolo di Page; difficile dire se sia il suo intervento più leggendario, vista la messe di canzoni della band: sicuramente è uno dei migliori. Aperto dal potente stacco di Bonham, il solo di Page sciorina frasi blues da manuale, con un suono nemmeno troppo pesante e distorto e una velocità allora appannaggio di pochi.

Il seguito è con “What Is and What Should Never Be”, brano piuttosto curioso per lo stile dei Led Zeppelin; la partenza, quasi jazzata, ricorda alcuni passaggi dell’Hendrix più psichedelico, il basso di Jones è in particolare evidenza e segna le direttive della canzone, dettando i cambi di ritmo che portano il pezzo da delicata ballata a robusto hard rock. L’assolo di Page alla slide è inaspettatamente delicato, ma non privo di accelerazioni e passaggi più hard: i Led Zeppelin iniziano a sperimentare e il pezzo – che all’epoca doveva suonare straniante – dimostra che hanno ragione.

La successiva “The Lemon Song” rappresenta l’ennesima incursione nella musica del diavolo; è però un blues malato, rallentato e psichedelico, con la chitarra di Jimmy Page, qui quantomai ispirato, a farla da padrone. Il riff è preso pari pari dalla celebre “Killing Floor”, tanto che questo era il titolo quando il brano era in scaletta nei live, amata anche da Jimi Hendrix e all’epoca un vero standard, palestra per tutti i chitarristi. Una repentina accelerazione porta al violento assolo di Page, prima che il brano rientri nel riff iniziale, per poi ispirare una serie di vocalizzi di Plant, con testi di imbarazzante sessismo, a rileggerli con la sensibilità di oggi, che strizzano l’occhio alle liriche del bluesman dannato Robert Johnson. Un vero peccato che i ragazzi all’epoca avessero completamente dimenticato di citare tra gli autori sia Johnson che Howlin’ Wolf, autore di “Killing Floor”: un torto a cui rimedieranno le cause per plagio.

Il brano sancisce – al di là delle polemiche – che i nuovi profeti dell’hard blues sono loro.

Il momento è quello buono per rallentare ed ecco “Thank You”, prima vera ballata romantica del complesso. Dedicata da Plant alla moglie e punteggiata dall’organo di John Paul Jones, suona quasi melodica e pur non essendo prettamente acustica, segna un cambio di registro non indifferente rispetto a quanto sentito finora, con accenti quasi beatlesiani e un bell’assolo acustico di Jimmy Page.

Ma la frenata dura un attimo, il tempo di girare il vinile è l’hard rock muscoloso torna a dominare con “Heartbreaker”. Il brano è giustamente assurto nel tempo a icona dell’hard rock e a vero terreno d’allenamento per giovani chitarristi. Perfino Eddie Van Halen ammise di aver approcciato la tecnica del tapping cercando di riprodurre – senza riuscirci – le sonorità che Page riesce a tirare fuori dalla sua sei corde in questo pezzo.

Il riff di Page è perentorio, uno dei più semplici e allo stesso tempo efficaci della storia del rock; il canto di Plant è essenziale, più che in altri episodi e il lavoro della sezione ritmica è paragonabile ai pistoni di un potente motore da corsa. A un certo punto, al termine di una sorta di “rave up” come usavano fare gli Yardbirds, all’improvviso, il silenzio: Jimmy Page si scatena nell’iconico assolo, ed è proprio il termine giusto visto che lo suona in completa solitudine, dando fondo al repertorio e alla sua proverbiale velocità. La seconda parte è meno celebrata, con gli altri strumenti che riprendono a pompare, ma ancora meglio riuscita. “Heartbreaker” è in definitiva un capolavoro, il manifesto dell’hard rock.

La successiva “Living Loving Maid (She’s Just a Woman)” è curiosamente leggera e orecchiabile, quasi ad anticipare certo hard rock ed heavy metal un po’ di grana grossa di dieci anni dopo. Il testo parla di una groupie di New York che perseguitò per un po’ Page: “Questa canzone parla di una donna degenerata che cerca disperatamente di essere giovane.” – disse Plant a proposito. L’assolo di Page è efficace e molto breve, e propone un suono molto pulito della Les Paul che all’epoca aveva appena iniziato ad usare, dopo averla acquistata da Joe Walsh, futuro Eagles.

Tocca poi a “Ramble On”, gemma del repertorio degli Zeppellin, non sempre considerata a dovere. Il brano parte come ballata quasi acustica, con la chitarra di Page e il basso di Jones molto in evidenza. L’atmosfera da ballata psichedelica ricorda un po’ la celebre “Season of the Witch” di Donovan, ma presto Page imbraccia la celebre Telecaster Dragon – che allora alternava ancora con la Les Paul – e il pezzo diventa una robusta cavalcata rock, un po’ come succederà nella ben più celebre “Stairway to Heaven”.

Si è molto parlato delle percussioni usate da Bonham nella parte acustica del pezzo, senza venirne a capo: chi dice che suonasse un bidoncino dei rifiuti, chi che percuotesse il sedile della batteria o le scarpe. Altri citano la custodia di una chitarra percossa a mani nude. Il testo cita ripetutamente le opere di Tolkien, mentre lo stile di alcuni vocalizzi di Plant nel finale sarà ripreso da Eddie Vedder in “Alive” dei Pearl Jam.

Arriviamo a “Moby Dick”, aperta dal bel riff di Page e Jones e con i fantasiosi fill di chitarra; tuttavia il pezzo è famoso per il lungo assolo di batteria di John Bonham, emblematico della sua tecnica ma spesso saltato a pie’ pari dagli ascoltatori, come quasi sempre per gli assoli di batteria. Il riff è pesantemente debitore a “Watch Your Step” di Bobby Parker, artista conosciuto e stimato da Jimmy Page, ed è infatti in tutto e per tutto un riff blues a livello strutturale.

Il disco si chiude con “Bring it on Home”, altro standard blues di Willie Dixon, artista particolarmente caro alla band. La prima parte è solo per chitarra, voce filtrata e armonica suonata dallo stesso Plant. Quando entrano gli altri strumenti il brano si trasforma completamente, una cavalcata elettrica di hard blues dove Page ha di nuovo occasione di sfoggiare la sua tecnica con pochi eguali. Non è certo il blues più riuscito dei Led Zeppelin ma chiude in modo efficace questo capolavoro del rock.

Ancora un cenno sulla copertina, curata da David Juniper, ex compagno di studi di Page, che ricevette l’impegnativa direttiva di “tirare fuori qualcosa di interessante”.

Il giovane se la cavò basandosi su una fotografia della “Divisione Jagdstaffel 11 della Luftstreitkräfte” risalente alla Prima Guerra Mondiale: era la famosa squadriglia volante capitanata dal “Barone Rosso”. Colorata la foto, Juniper aggiunse le facce dei quattro membri della band.

Led Zeppelin II” è un disco di importanza capitale per la storia del rock, e dell’hard rock in particolare. Le consuete faide tra fan del gruppo lo pongono in contrapposizione col primo lavoro, quello più caro ai fautori del blues, al terzo – più oscuro e viscerale – e al quarto album, quel “IV” che contieneStairway to Heaven.

Fortunatamente non c’è bisogno di scegliere, il poker di dischi dei Led Zeppelin è patrimonio di qualsiasi appassionato di rock.

— Onda Musicale

Tags: Led Zeppelin, Robert Plant, John Bonham, Jimmy Page, Stairway to Heaven, John Paul Jones
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