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“Masters Of Reality”, la conferma dei Black Sabbath

Nell’anno di grazia 1971 uscivano tre dischi che avrebbero influenzato la storia non solo dell’hard rock, ma di tutto il rock.

A luglio, nello stesso mese, i Deep Purple sfornavano Fireball, il più sperimentale dei capolavori della stagione targata MK II e i Black Sabbath confermavano il loro status di terzo vertice dell’hard rock inglese con “Masters of Reality”, mentre a novembre i Led Zeppelin avrebbero sfornato “IV”, il loro capolavoro.

Per qualsiasi appassionato di rock rivivere le emozioni di quell’anno sarebbe pura goduria; nell’attesa che qualche scienziato inventi la macchina del tempo, possiamo rievocare quell’irripetibile stagione ricostruendone la storia. Oggi vi raccontiamo “Masters of Reality” dei Black Sabbath.

La band di Ozzy Osbourne era reduce da due dischi, il self titled d’esordio e “Paranoid”, che avevano gettato i semi per un nuovo genere, come e più di quanto avessero fatto i rivali Led Zeppelin e Deep Purple; se questi ultimi avevano codificato essenzialmente le due vie dell’hard rock, i primi estremizzando il concetto di rock blues e i secondi mischiando spericolatamente prog, psichedelia e rock duro, i Sabbath avevano creato dal nulla il nascituro heavy metal. “Masters of Reality” è un ulteriore passo avanti in questo senso, lavorando sul sound nella direzione di una maggiore compattezza, rallentando i ritmi indiavolati di pezzi come la sulfurea “Paranoid”, e aumentando i toni epici con l’introduzione di chitarre acustiche e melodie quasi medievali.

“Masters of Reality” sarebbe diventato negli anni una vera e propria bibbia per i cultori del doom e – negli anni Novanta – dello stoner.

Per la prima volta Tony Iommi escogita la trovata di abbassare l’accordatura della chitarra elettrica di un tono e mezzo; l’intento è quello di suonare più facilmente – le corde sono meno tirate e “dure” – pur con la sua famosa menomazione rimediata in un incidente quando alternava ancora i turni in acciaieria con quelli alla sei corde.
Il risultato è inaspettato: abbassando il tono le canzoni risultano ancora più cupe e minacciose, dando quell’ulteriore tocco gotico alla musica dei Black Sabbath che – per quanto si affannino giustamente a smentire – sono sempre più identificati con l’ala più esoterica, se non satanista, del rock. Una nomea sicuramente poco fondata che, tuttavia, fa anche ampiamente gioco all’immagine della band.

Anche Geezer Butler, il bassista a cui si deve il moniker della band, regola il suo strumento di conseguenza, facendo sì che la potenza di fuoco di chitarra e basso che suonano i maestosi riff in cui Iommi è maestro, sia qualcosa di assolutamente inedito; una cupezza che toglie il fiato e la speranza di qualsiasi apertura alla melodia, come accade in altri gruppi di hard rock. Il trucco del tono e mezzo abbassato verrà adottato da un numero imprecisato di band heavy metal.

Masters of Reality” non è però solo un disco che diventa di culto negli anni, come per altri classici; già appena uscito vende benissimo, confermando Ozzy e soci come complesso di enorme successo, nonostante – o grazie a – l’ostracismo dei benpensanti.

La copertina, essenziale per non dire spartana, fa anch’essa storia: le semplici diciture di band e titolo, in viola e grigio, su uno sfondo nero; una grafica che sarà ripresa spesso nel metal.

Andiamo ad analizzare le otto tracce di questo capolavoro heavy metal ante litteram.

Il brano si apre coi celebri colpi di tosse di Tony Iommi, registrati e mandati in loop con un effetto straniante; pare che il chitarrista stesse fumando uno spinello, e “Sweet Leaf” è proprio un inno alla cannabis, mentre il titolo si rifà a una marca di sigarette irlandesi.

I colpi di tosse di Iommi introducono uno dei riff più possenti e cupi della storia del rock, mentre la voce inconfondibile di Ozzy – perfetta nella sua totale imperfezione – inizia a sciorinare il testo col timbro vocale che lo ha reso un’icona: storto, beffardo, strascicato, a tratti stonato ma inconfondibile ed efficacissimo nell’economia del suono. Un break a metà pezzo ospita il velocissimo assolo di Iommi, sul tappeto del drumming di Bill Ward, tecnico e creativo come pochi altri batteristi, e al basso di Butler, sempre al fulmicotone nel doppiare la chitarra di Tony. Il riff del brano, sovrapposto in maniera bizzarra alla batteria di “When the Levee Breaks” dei Led Zeppelin, verrà utilizzato a metà anni Ottanta dai Beastie Boys in “Rhymin & Stealin”.

Si prosegue con la bella “After Forever”, cavalcata leggermente più sostenuta introdotta dal sintetizzatore e che alterna vari riff di uno Iommi in grande forma. L’atmosfera è leggermente più distesa – meno sepolcrale, si potrebbe dire – mentre il testo di Butler, che a dispetto di qualsiasi logica era un buon cattolico, è ispirata a temi cristiani; Butler faceva sul serio, ma la nomea di band satanista fece interpretare ad alcuni il testo come pura blasfemia. Il brano si presenta molto compatto e solo alla fine ospita un breve assolo di Iommi che si muove essenzialmente su linee blues.

I trenta secondi di “Embryo”, in cui Iommi suona una straniante litania che pare una giga celtica, percuotendo le corde della sua Gibson con un archetto, introducono uno dei pezzi più fortunati del canzoniere sabbathiano: “Children of the Grave”.

Il pezzo è dominato da una ritmica possente e sostenuta che farà scuola presso le band heavy metal; basso, chitarra e batteria pompano in maniera ossessiva e ossessionante, mentre Ozzy si avventa sul testo antimilitarista con la sua solita verve sghemba e la sua voce che pare arrivare da un luogo a metà tra l’oltretomba e un gracchiante citofono.

Verso metà brano si inserisce un breve break più lento in cui toni si fanno ancora più cupi, prima che il ritmo indiavolato riprenda con le successive strofe; si arriva al momento dell’assolo di chitarra, con Iommi che appare abbastanza misurato pur suonando sempre con grande pathos. È ben evidente come Tony non possa competere con Blackmore e Page sul loro stesso terreno, per limiti tecnici e per le conseguenze della menomazione alla mano che gli impone di suonare con due piccole protesi alle dita; tuttavia il chitarrista eccelle, forse anche più dei rivali, nel creare maestosi riff e atmosfere dense di suggestione.

L’ultimo minuto se ne va calando l’ascoltatore in piena atmosfera horror: la chitarra sembra evocare un cimitero pieno di fantasmi, mentre Ozzy sussurra in loop il titolo del brano.

La successiva e breve “Orchid” costituisce un bell’intermezzo completamente appannaggio delle chitarre acustiche di Tony Iommi, anch’esse accordate di tre semitoni più basse, e permette di riprendere un po’ il fiato prima di immergersi nuovamente nelle atmosfere tipiche dei Black Sabbath; cosa che puntualmente avviene con la successiva “Lord of this World”, introdotta da uno dei riff più granitici della band e con una prestazione vocale di Ozzy Osbourne come sempre impagabile e inusualmente pulita. L’incedere del brano è questa volta più affine all’hard rock tipico degli anni ’70, con una bella parte di chitarra che riesce miracolosamente a combinare fraseggi al limite del blues con brevi accenni più melodici. L’assolo finale è più veloce e ai limiti dell’improvvisazione, concludendo a dovere un pezzo meno famoso di altri del repertorio ma di ottima fattura e godibilità.

La successiva “Solitude” è uno dei rari ma fulgidi esempi di ballata dei primi Black Sabbath; le atmosfere sono rilassate, guidate dal basso di Geezer Butler e punteggiate dalla chitarra di Tony Iommi, abilissimo anche nel lavorare di fino in un ambiente infido per i canoni della band, una sorta di folk psichedelico e bucolico. Il solo finale è invece debitore in tutto e per tutto alle atmosfere allora molto in voga dei film western e delle colonne sonore di Morricone; curiosamente Iommi si cimenta anche col flauto con buona efficacia, dando toni quasi da ballata prog al tutto. Una menzione a parte per la voce di Osbourne, angelica e quasi irriconoscibile per via dei toni sommessi e per essere filtrata attraverso un amplificatore Leslie; tanto irriconoscibile che per anni circolò una leggenda metropolitana secondo cui a cantare fosse il batterista Bill Ward.

Il finale è ancora all’insegna dell’heavy metal con “Into the Void”, brano adorato e coverizzato da una schiera di adepti del culto Black Sabbath. Le atmosfere sono le medesime della maggior parte di questo album, che in effetti brilla per la grande compattezza: riff a ripetizione di uno Iommi in evidente stato di grazia, voce salmodiante di Ozzy e velocissimo break centrale.

Tra i gruppi che hanno inciso “Into the Void”, ricordiamo i Soundgarden, i Kyuss e i Monster Magnet, mentre James Hetfield dei Metallica ed Eddie Van Halen hanno indicato il pezzo – rispettivamente – come la canzone preferita dei Black Sabbath e come uno dei migliori riff della storia.

Si chiude così “Master of Reality”, terzo capolavoro di fila della stagione d’esordio, quella più brillante e innovativa, della band di Birmingham; un lavoro che non lascia scampo all’ascoltatore, vittima di una ragnatela fatta di metallo pesante e contornata da atmosfere cupe e ossessive, dalle quali – misteriosamente – non è così spiacevole farsi irretire.

 

— Onda Musicale

Tags: Deep Purple, Led Zeppelin, Ozzy Osbourne, Black Sabbath, Tony Iommi, Geezer Butler, Bill Ward
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