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Quatermass, il capolavoro dimenticato del prog

Gli anni Sessanta e Settanta sono stati gli anni d’oro del rock e, tra il 1968 e il 1976 circa, del rock progressivo. Tra i tanti nomi che ne hanno scritto la storia e sono arrivati a noi, ce ne sono altrettanti che non hanno avuto la stessa fortuna.

Tra questi un formidabile terzetto di Liverpool, i Quatermass.

Bernard Quatermass è il nome di un personaggio di fantasia creato da Nigel Kneale nel 1953, protagonista di miniserie per la televisione, film, romanzi e radiodrammi di grandissimo successo; fu proprio al cognome del professore che il bassista John Gustafson, il tastierista Peter Robinson e il percussionista Mick Underwood vollero rendere omaggio quando crearono la propria band.

Nel 1970 uscì il loro unico disco, che portava lo stesso nome del complesso e sfoggiava una peculiare copertina a opera del celebre studio Hipgnosis, uno straniante fotomontaggio in bianco e nero con dei grattacieli ripresi da una particolare prospettiva, sorvolati da tre pterosauri.

Il tempo e le qualità tecniche erano quelli giusti per l’avvio di una carriera promettente nel campo del rock progressivo; la grafica iconica e alcune particolarità della formazione pure, ma la storia andò diversamente. Vediamo perché. I tre musicisti, quando formano i Quatermass nel 1969, sono tutti fuoriusciti dagli Episode Six, band dedita a un genere di passaggio tra il beat e le nascenti istanze hard e prog, e hanno alle spalle una lunga gavetta. Gustafson è ritenuto il miglior bassista di Liverpool, secondo forse solo a Paul McCartney, e vanta anche una voce duttile e potente; si è fatto le ossa fin da adolescente, attraversando tutte le evoluzioni del beat.

Underwood ha militato negli Outlaws, una formazione di breve durata dove ha suonato con Ritchie Blackmore, mentre Peter Robinson è tastierista negli Episode Six nel momento in cui i suoi due sodali vi confluiscono. La band è la stessa di cui fanno parte anche i giovani Ian Gillan e Roger Glover, a testimonianza di un legame a doppio filo tra i Quatermass e i Deep Purple.

Legame confermato da un’altra curiosa vicenda che li lega: durante le registrazioni diStormbringer, ultimo album della formazione Mk III dei Deep Purple, si ritiene generalmente che la scintilla che fece da innesco alla separazione tra la band e Ritchie Blackmore fu il rifiuto di David Coverdale e Glenn Hughes, voci del gruppo, di interpretare una cover proprio dei Quatermass, a cui Blackmore teneva molto.

Il pezzo in questione era “Black Sheep of the Family” e, secondo i ben informati, il bizzoso chitarrista se ne fece un cruccio talmente profondo da abbandonare i Deep Purple e fondare i Rainbow, con cui finalmente incise la sua versione, peraltro abbastanza scialba.

Nel 1969, dunque, Gustafson, Underwood e Robinson danno vita alla loro band. Nonostante l’assenza della chitarra, strumento principe e quasi immancabile di ogni buon complesso rock, l’affiatamento è da subito eccezionale. Questa caratteristica li fa da subito paragonare ai coevi Emerson, Lake & Palmer, anche se va detto che il suono dei Quatermass è più duro e incline all’hard rock venato di blues, di quanto la formazione facesse pensare. Meno inclini a virtuosismi fini a sé stessi rispetto, ad esempio, agli ELP, sfoggiano un sound compatto, con lunghe parti strumentali ma assai compatto.

Robinson è un tastierista di grande valore, specie all’organo che, amplificato a dovere, riesce a sopperire all’assenza della chitarra; tuttavia, più che al pirotecnico Keith Emerson, il suo modo di suonare è forse più affine a quello di Jon Lord. Gustafson è un bassista di tecnica e sostanza, e la sua voce, quasi sempre filtrata in qualche modo, è efficace e potente. Underwood, infine, sfoggia un drumming roccioso e creativo al tempo stesso.

Il loro unico disco, intitolato semplicemente “Quatermass”, esce nel 1970 per la Harvest, etichetta mitica del prog inglese.
Il disco si apre col breve strumentale “Entropy”, un ricamo d’organo che fa da introduzione al lavoro. Subito si accelera con la famosa “Black Sheep of the Family”, pezzo dal potenziale commerciale esplosivo – e non sfruttato – e dalle atmosfere hard rock molto simili a quelle dei primi album dei Deep Purple Mk II; che, ricordiamolo, sono contemporanei se non posteriori a “Quatermass”: difficile dire se e chi abbia influenzato l’altro. Il pezzo, a tratti quasi uno scatenato rock’n’roll, scorre via sul velluto e offre l’occasione a Gustafson di mettersi subito in luce coi suoi vocalizzi.

Tre minuti che fanno da perfetto start a questo sorprendente lavoro; ma è con la successiva “Post War Saturday” che i Quatermass iniziano a sfoderare l’artiglieria pesante. Dopo una breve introduzione piuttosto euforica con organo e batteria in perfetto stile prog, la musica sfuma e lascia spazio a un lentissimo e sofferto blues psichedelico e apocalittico.

Siamo dalle parti di certi blues dei primi Led Zeppelin e della mitica “Child in Time” dei Deep Purple, con il puntuale apporto ritmico di Underwwood e il basso di Gustafson che fanno da sfondo al canto strascicato e sofferente di quest’ultimo.
L’organo di Robinson si limita a puntellare il tutto, almeno fino ai tre minuti, quando il brano esplode in un crescendo entusiasmante. Il ritmo, dopo il climax, riprende blando e fa da sfondo a una parte di pianoforte spettrale, atonale e a tratti dissonante, davvero geniale. La ripresa del crescendo con le urla di Gustafson lascia spazio a un nuovo break strumentale, questo in perfetto stile prog; stavolta siamo dalle parti di Emerson, Lake & Palmer. “Post War Saturday” si conclude riprendendo di nuovo il tema iniziale: quasi dieci minuti di pura magia progressiva che lasciano col dubbio di come una band del genere non abbia ottenuto l’attenzione che meritava.

Si prosegue con la breve “Good Lord Knows”, ballata melodica dai toni anticati, grazie anche all’impiego di un clavicembalo, forse imitato dal sintetizzatore, e dell’orchestrazione. Un piacevole intermezzo in crescendo che stempera i toni prima che la musica torni a farsi più robusta.

Cosa che puntualmente accade con la successiva “Up On The Ground”, roccioso pezzo di hard prog introdotto da un potente riff che ricorda anche qui i Deep Purple; l’organo di Robinson, opportunamente trattato e amplificato, non fa rimpiangere l’assenza della chitarra elettrica. L’andamento del drumming è quasi funky e i riff che snocciolano le tastiere di Robinson fanno da sfondo alle parti vocali in staccato di Gustafson, in luce anche col suo poderoso basso.

La parte centrale ospita i vari contributi strumentali, con una sezione che ricorda molto da vicino la parte funky di “Echoes” dei Pink Floyd; sugli scudi sempre l’organo di Peter Robinson, che si lascia andare a qualche virtuosismo che ne chiarisce la tecnica. Il finale riprende il tema iniziale coi riff sparati a tutto volume e il suono mastodontico del basso, prima di una coda leggermente gotica. Dal vivo il brano era un vero e proprio cavallo di battaglia che, dilatato fino al quarto d’ora, faceva da palestra per lunghe parti strumentali.

La successiva “Gemini”, sempre sospesa tra cavalcata hard rock e parti più d’atmosfera, ha sempre fatto versare fiumi d’inchiostro per alcune assonanze con la ben più celebre “Speed King” dei Deep Purple. Anche in questo caso è difficile stabilire se una delle due band si fosse ispirata all’altra: certo è che per periodo e militanze incrociate, i due complessi si conoscessero alla perfezione, e che la parte d’organo di Robinson non abbia nulla da imitare a quelle, mitiche, di Jon Lord.

Il disco va avanti con due lunghi pezzi, quasi due suite. Il primo è “Make Up Your Mind”. La partenza è sostenuta, con il canto di Gustafson che ricorda da vicino certe cose dei Vanilla Fudge, band psichedelica e proto prog allora molto in voga. Un paio di minuti e, da quasi canzonetta pop, si apre un’inaspettata cavalcata prog con le tastiere di Robinson sempre sugli scudi; tra cambi di tempo e di ritmo, parti strumentali dilatate e suoni sintetici, siamo di fronte ad alcuni passaggi nel miglior stile progressivo del periodo. Nel finale – come abitudine – viene ripreso velocemente il tema iniziale.

Siamo a “Laughin’ Tackle”, pezzo più lungo della raccolta e vera summa prog dei Quatermass. L’introduzione è tutta appannaggio di un lungo, martellante e cupo giro di basso, a cui probabilmente anche i nostrani Goblin di “Profondo Rosso” devono qualcosa di più che un’ispirazione. L’entrata dell’organo di Robinson, con frasi jazzate che vanno a doppiare il basso di Gustafson, preannuncia una sequela di voli pindarici del tastierista, che si prende decisamente la scena in questo brano, togliendosi più d’uno sfizio e lasciandosi andare forse a un’eccessiva prolissità, certo più di quanto fatto finora. I toni passano dal prog al jazz, fino a inserti prettamente psichedelici. Nel mezzo trova spazio anche un lungo assolo di batteria di Underwood, marchio di fabbrica di ogni disco degli anni Settanta. Il finale riprende ancora il tema iniziale, prima che una breve ripresa di “Entropy” concluda uno degli album più belli e ingiustamente poco conosciuti del rock progressivo.

Sul perché i Quatermass non abbiano ottenuto nessun successo, a parte il timido plauso della critica, si è molto detto e scritto; certo è che il disco, che per assurdo vendette discretamente in Italia ma raggiunse cifre ridicole in patria, divenne da subito un culto soprattutto per i collezionisti, a causa della difficile reperibilità.

Probabilmente gli strumentisti, dotati di un bagaglio tecnico eccezionale, erano deficitari in altri talenti, come quello della costanza e della perseveranza; a fonte dell’iniziale scarso riscontro preferirono rifugiarsi in più comode carriere di gregari o turnisti.

Le assonanze coi Deep Purple, baciati invece da un limpido successo, continuarono negli anni, tanto che sia Gustafson che Underwood si sarebbero ritrovati anni dopo a suonare nella band di Ian Gillan. Insignificante invece il tentativo di rispolverare il moniker da parte del solo batterista, nel 1990, col progetto Quatermass II; tanto per cambiare, al basso c’era Nick Simper, membro fondatore degli onnipresenti Deep Purple.

L’attimo e la magia erano ormai perduti, e i tre pterosauri del professor Quatermass ormai potevano librarsi solo nei cieli delle tante leggende del rock.

— Onda Musicale

Tags: Deep Purple, Ian Gillan, Pink Floyd, Hard rock, Hipgnosis, Blues, Echoes, Prog Rock
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