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“Terra in bocca”, il capolavoro concept dei Giganti

Nel 1971 il rock progressivo in Italia era ancora poco più che un’idea e i concept album si contavano sulle dita di una mano, senza peraltro essere sempre ben riusciti; in questo contesto usciva “Terra in bocca”, opera rock sulla mafia, dei Giganti, band nota fino ad allora per un beat di grande successo.

Il complesso affondava le radici addirittura alla fine degli anni Cinquanta, quando accompagnava alcuni pionieri del rock’n’roll italiano: Clem Sacco, Ghigo e Guidone; la prima formazione vedeva in organico Enrico Maria Papes, batterista e formidabile voce di basso, Mino Di Martino alla chitarra, Giannino Zinzone (proveniente da I Ribelli) al basso, Checco Marsella alle tastiere e Benvenuto Benny Pretolani al sax.

Nel 1963, l’ingresso di Sergio Di Martino – fratello di Mino – al posto di Zinzone e l’abbandono di Pretolani, stabilizza il gruppo nella classica formazione a quattro. Dopo aver suonato come Gli Amici e The Ghenga’s Friends, adottano il definitivo moniker: I Giganti.

I quattro sono discreti strumentisti, ma la loro peculiarità sta nelle voci, molto diverse ma perfettamente complementari, e adatte a creare armonie vocali assai complesse, tanto da farli paragonare ai Beatles.

La musica è un beat a tratti melodico, spesso ibridato con tratti della musica nera, niente di rivoluzionario ma di grande qualità; i temi sono l’amore, ma anche qualche timida critica sociale che li porta, nell’Italia bigotta del mainstream del periodo, a qualche scontro con la censura.

Il successo è sempre maggiore fino al 1968, quando per motivi oscuri e al culmie di liti interne, I Giganti si sciolgono; hanno all’attivo due album e ben quindici singoli di successo, dalle celebri “Tema”, “Una ragazza in due” e “Proposta” alla censurata “Io e il Presidente”. Da segnalare una particolarissima versione di “Summertime” e la curiosa “In paese è festa”, rifacimento della famosa “A Taste of Honey” di Herb Alpert, sigla di “Tutto il calcio minuto per minuto”.

Dopo l’insuccesso di alcuni progetti solisti, nel 1970 i quattro giovani si riuniscono con l’idea di dare vita a una musica più complessa e strutturata, socialmente impegnata. L’insipida “Chariot” e una sconsiderata cover di “Space Oddity”, intitolata “Corri uomo corri” deludono, ma i ragazzi, con l’aiuto di Vince Tempera e altre personalità di spicco dell’underground, stanno preparando il colpaccio.

I Giganti si mettono al lavoro su un ambizioso concept album, una vera opera rock, basata sui testi del giornalista Piero De Rossi; il tema è quello scottante della mafia e la trama pare sia tratta da una serie di interviste dello stesso De Rossi a un detenuto mafioso, basata quindi su fatti realmente accaduti. All’epoca la distanza tra il mondo alternativo dell’underground musicale e il rassicurante mainstream popolare, quello del varietà del sabato sera, è siderale: la parola “mafia” non si può nemmeno pronunciare e il tema scelto da I Giganti è un vero tabù.

Attorno al progetto si raduna il meglio della scena musicale del momento.

Vince Tempera è un giovane direttore d’orchestra e tastierista che firma le musiche per il deposito alla Siae; in realtà sembra siano da attribuire a Mino De Martino. Col complesso collaborano strumentisti del calibro di Ellade Bandini, Ares Tavolazzi (poi negli Area) e Marcello Dellacasa, bravissimo chitarrista dei Latte e Miele; il disco viene registrato a Milano, presso gli studi Play-co.

Tra i ringraziamenti dell’album, oltre a quelli ironici alla farmaceutica Sandoz (per l’apporto lisergico), al Whisky Glen Grant e a Carlo Marx, c’è un misterioso cenno a Frankenstein: si tratta in realtà di Gianni Sassi, il futuro fondatore della Cramps.
L’edizione originale del vinile, molto rara, conteneva un manifesto realizzato dallo stesso Sassi, e presentato come “il manifesto più squallido dell’anno”. Purtroppo, come prevedibile, il maglio della censura si abbatte sul lavoro del gruppo, ufficialmente per i testi troppo crudi, decretandone il quasi totale insuccesso e – di seguito – la fine della band.

Il suono del disco è una sorta di miscuglio tra proto prog, reminiscenze beat, venature rock blues, cantautorato in stile De André e musical. La musica è complessa e strutturata, ma quello che fa di “Terra in bocca” un capolavoro del rock italiano e non solo, è l’incredibile compattezza tra le liriche, la trama e le musiche. I testi non mostrano cedimenti dall’inizio alla fine, risultando perfettamente pertinenti alla difficile storia raccontata e ottimi nel creare il pathos richiesto dalla situazione. La musica, praticamente un’unica, lunga suite divisa in dodici movimenti, non è da meno; le atmosfere, ora delicate e acustiche, ora febbrilmente elettriche, non hanno cadute di tensione.

La trama è quella di un delitto di mafia – ai danni di un ragazzo che vuole combattere il pizzo sull’acqua, scavando un pozzo nella sua proprietà – e della vendetta del padre della vittima; il tutto si incrocia con la storia d’amore del giovane, che aggiunge lirismo ed emozione alla storia.

“Terra in bocca” si apre con una lunga ouverture strumentale, tra parti di piano jazzate e passaggi più inerenti al prog, con una chitarra elettrica ai limiti dell’hard. Dopo tre minuti, le atmosfere si fanno acustiche, con l’arpeggio di chitarra che fa da sfondo alla prima “canzone”. Siamo dalle parti di Fabrizio De André e della canzone d’autore francese, poi la musica accelera di nuovo col grido che annuncia il ritrovamento del cadavere del ragazzo ucciso. Una parte recitata, col suono del mare e del mellotron sullo sfondo, descrive il paese di cento case e apre a un altro pezzo acustico, melodico e con le voci armonizzate nel tipico stile del complesso.

Come sarà per tutta la durata dell’opera, velocemente l’atmosfera cambia, introducendo una ballata quasi western cantata in modo magistrale dall’incredibile voce baritonale di Enrico Maria Papes, che descrive la misera processione di anime dei paesani che fanno la fila per comprare l’acqua. Subito una rapsodia di piano e percussioni riprende il sopravvento, all’insegna di quei cambi di ritmo e suggestioni che caratterizzano tutto il disco. La splendida voce di Marsella, dai vocalizzi quasi soul, porta avanti per un po’ il discorso, per poi tornare alle armonie vocali e a una bellissima parte di chitarra.

Un nuovo cambio di tono, stavolta piuttosto teso, narra le violenze quotidiane in paese, inframezzato dalle belle armonie vocali dei Giganti e da veri bozzetti recitati in dialetto siciliano. Il tema principale, cantato dai fratelli Di Martino, introduce la storia d’amore tra la vittima e una giovane paesana, con un afflato melodico e romantico affine quasi a certe cose di Lucio Battisti. Tra ritmi più sostenuti e passaggi melodici che ricordano – e anticipano – vagamente “Bohemian Rhapsody” dei Queen, anche la narrazione della storia sentimentale riesce a non appesantire l’andamento del concept, pur tra qualche ripetizione e qualche scena “strappalacrime” di troppo. Siamo a metà disco e il filo narrativo principale – col giovane che afferma, millantando, di aver trovato l’acqua e viene fatto oggetto di minacce e violenze – viene ripreso con toni rock estremamente sostenuti, con la voce graffiante di Marsella e un bellissimo assolo di chitarra acustica in primo piano; particolare, questo, da non sottovalutare: quante erano all’epoca le band rock che si azzardavano a proporre un solo acustico? Sicuramente non un passaggio strumentale così diffuso.

La scena del ritrovamento del cadavere è tra le più epiche dell’intero lavoro, per poi trasformarsi nell’urlo di dolore del padre, sostenuto da una vera e propria cavalcata rock’n’roll quasi nello stile del coevo “Jesus Christ Superstar”. Siamo all’apice del pathos: i ricordi e il dolore si rincorrono fino al climax, e con una ripresa dolcissima del tema melodico che stride volutamente con gli eventi, si narra della vendetta e della successiva costituzione del padre. Una burocratica voce narrante introduce il colpo di scena finale: scavando la fossa per il giovane protagonista – improvvisa – sgorga l’acqua tanto anelata.

Una lunga parte strumentale e la ripresa del tema d’amore, con una voce filtrata elettronicamente che dà un tono onirico a questo passaggio, introducono il finale che riprende la scena del ritrovamento e descrive il funerale; ancora una cavalcata piena di cambi di ritmo che mette in mostra l’abilità degli strumentisti del progetto e la perfezione dell’impasto tra musica, voci e testi.

In definitiva non c’è altro modo per definire “Terra in bocca”, se non con l’abusato termine di capolavoro. Un capolavoro che non ha purtroppo avuto il riconoscimento meritato tra i contemporanei, decretando anzi di lì a poco il nuovo scioglimento del complesso, ma che rimane oggi tra i prodotti più importanti e senza tempo della musica leggera italiana.

“Terra in bocca” si è preso, nel tempo, alcune rivincite; più volte eseguito live in estemporanee riunioni della band, ha vinto il “Premio Paolo Borsellino” ed è stato suonato dal vivo in occasione del ventennale della Strage di Capaci.

I Giganti, come detto, si sciolsero di nuovo l’anno dopo, all’indomani del bizzarro singolo “Sono nel sogno verde di un vegetale”. Mino De Martino fu per alcuni anni molto attivo nell’underground, collaborando con Franco Battiato e Juri Camisasca nel progetto “Telaio Magnetico” e fondando con la moglie Terra Di Benedetto la prog band di culto Albergo Intergalattico Spaziale, che prendeva il curioso moniker dal loro locale di musica dal vivo a Roma.

Ancora oggi ascoltare “Terra in bocca” è un’esperienza che ci fa rivivere quegli anni contraddittori, in cui venivano concepiti eccezionali capolavori fin troppo avanti artisticamente che, allo stesso tempo, la censura era ancora in grado di vanificare con un colpo di spugna.

— Onda Musicale

Tags: Beat, Prog Rock
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