In primo piano

“My Generation”: la rivoluzione “mod” degli Who

Il 3 dicembre del 1965 esce “My Generation”, il primo album di una band di Londra composta da quattro giovanissimi musicisti, assurta da un po’ di tempo a vessillo del movimento mod. Il complesso si fa chiamare The Who.

Il movimento mod era nato a Londra alla fine degli anni Cinquanta, e nel successivo decennio avrebbe raggiunto il picco della sua popolarità e diffusione.

Erano gli anni del boom seguito alla Seconda Guerra Mondiale, una rivoluzione economica ma anche sociale, che avrebbe portato all’esplosione della controcultura, al Sessantotto e – qui da noi – agli Anni di Piombo; per la prima volta i giovani, i teenager, prendevano coscienza e volevano finalmente dire la loro.

La parola mod era la contrazione di modernism e contrassegnava all’inizio non un vero e proprio movimento, ma i giovani in generale; col tempo però gli appartenenti iniziarono a seguire una serie di regole non scritte. L’abbigliamento, innanzitutto: giacche di sartoria preferibilmente italiane, strette e a tre o quattro bottoni; pantaloni attillati e corti sulle caviglie. Per estensione, la passione per lo stile italiano li portava a girare in Vespa o Lambretta. Altra caratteristica era il parka, giaccone militare americano che si usava decorare col bersaglio della Royal Air Force, al punto che il simbolo diventerà il marchio proprio degli Who.

Il taglio di capelli, detto new french line, la musica afroamericana (prima il jazz, poi blues, rythm and blues, ska e reggae), le notti a ballare fino all’alba e il consumo di anfetamine, erano le altre caratteristiche tipiche dei mod.

In questo subbuglio culturale, nei primi anni dei Sessanta, due amici di vecchia data, Pete Townshend e John Entwistle, decidono di formare un gruppo dixie, The Confederates; bizzarramente, Pete – che cambierà la storia della chitarra – suona il banjo e John, eletto miglior bassista rock dai lettori di Rolling Stone, il corno francese.

Quando i due incontrano Roger Daltrey, biondo e riccioluto cantante dalla voce abrasiva, entrano a far parte della band di quest’ultimo, i The Detours. Poco dopo si aggiunge Keith Moon, batterista che non farà la storia della tecnica, forse, ma che diventerà uno dei musicisti più iconici del suo strumento.

Per un paio d’anni i The Detours si fanno le ossa suonando in giro per locali cover sfrenate di rythm and blues; nel 1964 decidono di cambiare ragione sociale: nascono gli Who, nome che – a parte un breve periodo fallimentare come High Numbers – li vedrà scrivere un bel pezzo di storia del rock.

Nel 1965, però, gli Who non sono ancora la band che sdoganerà l’opera rock e farà furore a Woodstock, sono un complesso ancora acerbo che – dopo qualche singolo di poca fama – ha improvvisamente pescato il jolly incidendo uno dei pezzi cardine del rock: “My Generation”.

Il cantato balbettante e rabbioso di Roger Daltrey, la chitarra sferragliante di Pete Townshend, incredibilmente dura per l’epoca, l’assolo di basso di John Entwistle: tutto concorre all’entrata nel mito immediata del brano. Eppure, sono le liriche sul contrasto generazionale, scritte da Townshend, quelle che rimangono impresse a fuoco.

“I hope I die before I get old” è la frase che sciocca i benpensanti, allerta la censura ed entusiasma i giovani fan, alla ricerca di una disperata rottura col mondo degli adulti. Sono i versi che – da soli – fanno degli Who una delle band più importanti di sempre: “Se anche gli Who avessero fatto un’unica canzone, “My Generation”, e niente altro, sarebbero comunque passati alla storia” scrive Chris Charlesworth, celebre giornalista inglese.

La censura tenta in prima battuta di ostacolare l’ascesa della canzone, e non potendo accusare apertamente il testo, lo fa additando il cantato balbuziente di Roger come offensivo. Ma perché Daltrey adotta questo curioso espediente espressivo? Per alcuni si rifà allo stile di John Lee Hooker, ma la versione più accreditata è quella di Keith Moon: “Pete aveva scritto le parole della canzone su un foglio di carta e lo diede a Roger, che non le aveva mai lette prima. Così, mentre le leggeva per la prima volta, balbettò. In studio c’era Kit Lambert, che disse a Roger: ‘Quando canti continua a balbettare’. Così fu, e il risultato lasciò tutti senza fiato. E pensare che tutto accadde solo perché Roger quel giorno aveva il raffreddore”.

Quale sia la ragione, il pezzo schizza nelle parti nobili della classifica e vende 300mila copie; poco, in confronto al mito che crescerà negli anni, al punto che oggi “My Generation” è ritenuto uno dei brani più importanti della storia.

Il successo improvviso impone immediatamente la realizzazione di un album; gli Who, anni dopo, avrebbero disconosciuto il risultato, eppure “My Generation” – il disco porta lo stesso titolo del singolo – è ritenuto a sua volta un album seminale e importantissimo, coi suoi pregi e difetti ed errori di gioventù.
Il disco si apre con “Out in the Street”, brano perfettamente a metà tra beat classico e musica black, molto dinamico e con la vocalità roca di Roger Daltrey sugli scudi. La sezione ritmica è indiavolata, per un attacco che ai tempi doveva risultare davvero durissimo.

La seguente “I don’t mind” è una struggente ballata in stile soul blues; è infatti una cover di James Brown e certo propone un sound che difficilmente sarà possibile trovare nei successivi sviluppi sonori della band. Townshend suona come il più canonico chitarrista Stax, con brevi fill dal suono cristallino, mentre Daltrey si cala con grande credibilità nel ruolo di James Brown albionico. Oggi quasi una curiosità, ma allora i suoni erano esattamente quelli.

“The Good’s Gone” si apre con un riff arpeggiato di Townshend che chiarisce subito quello che il chitarrista potrà dare alla storia dello strumento. La prestazione vocale di Roger Daltrey in questo piccolo capolavoro dimenticato è eccezionale, un mix tra il rock sporco e dannato dei futuri Velvet Underground e Iggy Pop e la voce cavernosa di Jim Morrison, appena stemperato dalla melodia spettrale del ritornello. Probabilmente il brano ha fornito più di un’ispirazione a Lou Reed e soci. Da recuperare assolutamente.

Le successive “La-La-La-Lies” e “Much to much”, pur mettendo in risalto la già grande personalità del gruppo, sono forse più in linea col beat dell’epoca, e finiscono per fare da apripista a “My Generation”, il numero più atteso del complesso, posto sagacemente a metà disco, e di cui abbiamo già detto.

Dopo il cavallo di battaglia è il momento di un altro piccolo gioiello, “The Kids are alright”, pezzo dai toni smaccatamente beatlesiani che diverrà una sorta di inno della cultura mod. Tra melodia e armonie vocali, pare davvero di ascoltare una versione indurita del sound dei primi Beatles.

“Please, please, please” è un’altra cover di James Brown, e la cosa non deve stupire, se pensiamo ai primi album di Beatles e Rolling Stones, infarciti di remake in misura ancora maggiore. La vera curiosità è ascoltare Pete Townshend alle prese con parti di chitarra in stile da consumato bluesman.

“It’s Not True” è uno scatenato rythm and blues alla Jimmie Reed su cui viene impiantata una melodia tipicamente beat, con un riuscito break centrale di nuovo dalle parti del proto punk; a seguire “I’m a Man”, unico numero genuinamente blues del lavoro, censurato negli Usa per le liriche troppo disinibite, nonostante il brano fosse una cover del sempreverde Bo Diddley. Il pezzo è il più classico dei blues, con la voce credibilmente nera di Daltrey e il piano dell’ospite Nicky Hopkins a prendersi la parte solista, lasciando spazio alle frasi blues di Townshend solo nel finale. Pete, del resto, non è mai stato il prototipo del guitar hero dagli assolo chilometrici.

“A Legal Matter” deborda ai confini di un boogie country che ricorda un po’ i coevi Yardbirds, uscendo gustosamente dagli schemi, prima della finale “The Ox”, cavalcata strumentale selvaggia e quasi tribale, con Townshend che dà fondo al suo repertorio di trucchi, tra suoni distorti e feedback. Oggi siamo abituati a questo tipo di sound, eppure “The Ox” fa ancora il suo bell’effetto: all’epoca doveva sembrare una vera orgia rumoristica.

Come detto, i quattro giovanotti mod avrebbero poi rinnegato il loro esordio, ritenendolo poco significativo rispetto al suono che producevano dal vivo – basti ascoltare il trattamento di “My Generation” nel mitico “Live at Leeds” – e sostanzialmente affrettato e immaturo.

La critica – e anche noi, umilmente – si è sempre dissociata, ritenendo “My Generation” un capolavoro del rock.

— Onda Musicale

Tags: The Who, The Rolling Stones, The Beatles, Modà, Pete Townshend, Roger Daltrey, Keith Moon, John Entwistle, My Generation
Sponsorizzato
Leggi anche
Quando Freddie Mercury travestì Lady Diana da uomo e la portò in un locale gay di Londra
“Coming back to life”: momento di rabbia o nostalgia del passato?