Sesso, droga, rock’n’roll, ma non solo. Alcol a fiumi, sessismo sfrenato, un’oscura passione per i cimeli nazisti e, infine, un immenso talento per il rock: tutto questo era Ian Fraser Kilmister, detto Lemmy.
Nonostante una vita passata a costruire una morte da rockstar, di quelle coi fuochi d’artificio, Lemmy è vissuto fino a settant’anni, andandosene il 28 dicembre del 2015, quattro giorni dopo aver celebrato la cifra tonda del compleanno (leggi l’articolo).
Sembrava incredibile a tutti – a lui per primo – che il fisico avesse retto tanto a LSD, anfetamine, metedrina e alla dose consigliata di Jack Daniels: una bottiglia al giorno da quando aveva trent’anni.
Eppure, Lemmy era invecchiato sul palco, suonando e bestemmiando, dormendo se e quando capitava, facendo discutere e arrabbiare tutti e incarnando, in poche parole, uno dei più ostinati e intramontabili miti della rockstar selvaggia e dannata.
Tutti conosciamo la figura nerovestita con cui capeggiava la schiera furiosa dei suoi Motörhead, quelli che iniziavano ogni concerto urlando al pubblico: “We are Motörhead… and we’re gonna kick your ass!”
Meno conosciuta è la sua parabola come bassista e voce degli Hawkwind, band inglese di rock spaziale, dove Lemmy fece un provino come chitarrista e fu poi preso come bassista, non si sa se per le sue indubbie doti di musicista o perché era piuttosto abile nel procacciare certe sostanze sintetiche: all’epoca andava così. E invece dagli Hawkwind, una band di ottima fama, fu poi estromesso senza troppe cerimonie proprio per una vicenda legata alla droga. Poco male, si rifece creando i Motorhead, guadagnandosi così l’immortalità.
Lemmy aveva iniziato giovanissimo a interessarsi alla musica, quando aveva scoperto che imbracciare una chitarra – anche senza saperla suonare – gli garantiva un certo successo con le compagne di scuola. La chitarra, però, aveva imparato a suonarla sul serio, ascoltando – pensate un po’ – i primi dischi dei Beatles, una band per cui nutriva sincera stima. Il debutto fu coi Rockin’ Vickers, un complesso di poche pretese e qualche successo, il primo a esibirsi oltrecortina, nell’ex Jugoslavia. Nel frattempo, Lemmy si manteneva – o si procacciava le sterline per i suoi vizi, fate voi – facendo il roadie per band più quotate, The Nice e Jimi Hendrix Experience. L’origine del soprannome “Lemmy” non fu mai chiara, qualcuno dice che fosse la storpiatura di “lend me”, ovvero “prestami”, visto che il giovane Kilmister aveva l’abitudine di chiedere soldi in prestito per giocare alle slot-machine, altra grande passione.
Nel 1968, Lemmy inizia a fare sul serio. Facendosi chiamare Ian Willis – il cognome del patrigno – entra nella band di Sam Gopal, percussionista malese di buona fama nella Londra psichedelica del periodo.
Sam era arrivato in Inghilterra nel 1962, suonava le percussioni e soprattutto le tabla, uno strumento tradizionale indiano; aveva fondato una band – i Sam Gopal’s Dream – in cui militavano Andy Clark e Mick Hutchinson. Quando i due lasciarono per formare il duo sperimentale “Clark-Hutchinson”, che inciderà tre ottimi lavori, Sam rifonda il gruppo chiamando a sé Roger D’Elia alla chitarra, Phil Duke al basso e il giovane Lemmy, che si occupa di cantare, suonare la chitarra e scrivere gran parte delle composizioni.
La batteria non c’è, sostituita dalle percussioni di Sam Gopal, che suona come avesse otto mani e riesce a sopperire alla mancanza di tamburi e pelli. Il periodo è quello della Swingin’ London, dell’anarchia creativa al potere, e anche una band così peculiare trova le risorse per incidere un album; sotto la direzione del produttore Trevor Walters, i quattro si insediano tra ottobre e novembre del 1968 ai De-Lane Lea Studios di Londra e registrano “Escalator”, un album che sarà pubblicato nel gennaio del 1969.
I brani registrati sono tredici: tre sono cover, cinque sono esclusiva farina del sacco di Lemmy e gli altri cinque attribuiti a tutto il gruppo. In sede di post-produzione verranno eliminati due pezzi, “Horse” e la cover blues di “Backdoor Man” di Willie Dixon, già incisa dai Doors; è un peccato, specie per quest’ultima, una resa oscura e quasi heavy del brano che traccia molto bene il suono del complesso e porta in sé i semi di quello che sarà il sound futuro di Lemmy.
L’album, va da sé, non ha nessun successo e sancisce praticamente la fine dei sogni di Sam Gopal, che inciderà un altro disco dopo almeno un paio di decenni, preludendo all’ingresso del giovane Kilmister negli Hawkwind.
“Escalator” è tuttavia un disco interessantissimo, il cui recupero è assolutamente imprescindibile non solo per gli appassionati e i filologi della storia dei Motorhead, ma per tutti i cultori del rock dei tempi d’oro. Il suono è ascrivibile in toto alla corrente psichedelica, ancora fortemente influenzato dal blues britannico, con qualche strizzata d’occhio al sound dei Cream, tanto che la voce di Lemmy ricorda da vicino quella di Jack Bruce. Le percussioni di Sam Gopal, la produzione talmente grezza da dare al tutto un tocco garage, gli intrecci di chitarra tra D’Elia e Lemmy, però, fanno sì che il suono dei Sam Gopal sia qualcosa di mai sentito prima, forse persino troppo avanti per garantire una qualche forma di successo.
Ma ascoltiamo “Escalator” e vediamo come suona, a oltre cinquant’anni dalla sua registrazione.
Il disco si apre con “Cold Embrace”, un pezzo che chiarisce subito le coordinate dell’intero lavoro. Sul tappeto di percussioni e del basso rotondo e sovraprodotto di Duke, si libra una chitarra acidissima che ricorda molto certi passaggi degli Steppenwolf. Il suono delle chitarre, per tutto il disco, è poco incline ai virtuosismi tecnici ma estremamente lirico ed evocativo: pare quasi sorvolare dall’alto la voce di Lemmy. Ed è proprio la voce di Lemmy a fare il suo ingresso trionfale nel mondo del rock: declamatoria, sepolcrale, incisiva, chiara e definitiva. Il canto del poco più che ventenne Kilmister è perfetto, sicuramente diverso dal sibilo rancoroso dei Motorhead, ma a suo modo forse più interessante. Carisma e personalità non gli mancavano, fin da allora.
La successiva “The Dark Lord”, introdotta da effetti ambientali, prosegue sulla stessa falsariga, risultando ancora più oscura e inquietante. La voce di Lemmy ha un qualcosa di ancestrale, specie quando pare rompersi per un momento durante il ritornello; si tratta di un esordiente, eppure il suo stile deciso pare già quasi buono per officiare un rito di magia nera sullo sfondo delle percussioni del leader e di un basso quantomai centrato.
“The Sky is Burning”, introdotta dal suono di fiamme crepitanti, è la prima composizione a esclusivo nome Ian Willis, ovvero Lemmy Kilmister. Siamo davanti a un brusco cambio di atmosfera, con la voce del cantante che si fa quasi dolce e carezzevole e un’atmosfera psichedelica sognante e bucolica. Secondo ostinate dicerie, i brani erano stati composti da Lemmy in una sola notte sotto l’effetto della metedrina. La breve, straniante nenia lascia il posto di nuove alle atmosfere oscure di “You’re Alone Now”.
Di nuovo la voce di Lemmy si fa lapidaria nel declamare il titolo della composizione, davvero molto riuscita. Il sound delle tabla di Gopal è un valore aggiunto e la canzone è sicuramente una delle migliori del lotto, una laconica dichiarazione di non amore sostenuta da suoni che all’epoca difficilmente si sentivano, dando un curioso tono raga di misticismo all’insieme, quasi straniante perché opposto all’acidità ferale delle chitarre elettriche. Sembra quasi di sentire dei Black Sabbath senza batteria e in salsa psichedelica.
La successiva “Grass” rallenta il ritmo e smorza i toni, riportando di nuovo le atmosfere ad un misticismo allucinato, esotico in superficie soprattutto grazie alle onnipresenti percussioni e all’andamento ondivago delle chitarre elettriche, ma debitore nella parte ritmica a un classico come “You really got me” dei Kinks. La voce di Lemmy è qui appena sussurrata, quasi irriconoscibile se paragonata a quella dell’oscuro alfiere del rock’n’roll che sarà coi Motorhead.
“It’s Only Love”, ancora una composizione di Kilmister è di nuovo una ballata tra Cream e Traffic, con qualche accenno beat non lontano dagli sfrenati bollori giovanili degli Yardbirds. Il sound è talmente grezzo da far sembrare certe produzioni garage quasi patinate al confronto. Pian piano il pezzo sale di tono, per poi scemare e lasciare spazio alla title track dell’album, uno dei passaggi fondamentali.
“Escalator” è un pezzo efficacissimo, quasi perfetto. Il basso è concitato ma puntuale nel tracciare la rotta, le percussioni sempre in primo piano e le chitarre terribilmente distorte, con una qualità sonora altalenante ma di grande suggestione. Il cantato di Lemmy è qui perfettamente centrato, così come lo straniante break di chitarra che prelude a un inconsulto cambio di tonalità. La musica dei Sam Gopal è questa: un cavallo imbizzarrito e privo di governo, che da un momento all’altro rischia di disarcionare l’ascoltatore meno avvezzo a questi suoni.
Il rombo di tuono e lo scrosciare della pioggia – molto simili a quelli di “Riders on the Storm” dei Doors, di un paio d’anni dopo – introducono “Angry Faces”, cover di Leo Davidson; ancora una volta una partenza un po’ in sordina e un crescendo che ricorda certe cose dei Cream e dei primi Traffic, per non parlare delle analogie con un altro oscuro capolavoro dimenticato e altrettanto grezzo, il disco dei Bulbous Creation.
“Midsummer Night’s Dream” parte di nuovo omaggiando il riff di “You really got me” dei Kinks, con un suono che pare molto affine però agli Steppenwolf, proponendo una cavalcata psych dal forte potenziale commerciale, molto accattivante e con una parte di chitarra elettrica iper-distorta, mentre Duke percuote le corde del basso da par suo.
C’è ancora spazio per un’altra cover, la celebre “Season of the Witch” di Donovan, sottoposta a un trattamento psichedelico grezzo e pesante, alleviato in parte dall’estemporanea presenza di cori femminili.
“Escalator” si conclude con un altro pezzo scritto da Lemmy, una bellissima ballata acustica ed esotica dal forte afflato melodico; si tratta forse della composizione più originale di tutta la raccolta, un brano da cui band più moderne come i Kula Shaker hanno certamente preso più di qualche ispirazione. La voce di Lemmy qui prende quasi un inusitato accento da crooner.
Siamo alla fine, anche se verrebbe voglia di rimettere subito il disco sul piatto e ascoltarlo di nuovo. Chi conosce Lemmy solo per le sue disavventure di paladino rock’n’roll esagitato e sopra le righe, avrà sicuramente modo di scoprire tra i solchi di questo datato vinile un’altra veste del rocker inglese.
Resta da capire cosa sarebbe stato della carriera e della vita del musicista se avesse continuato a suonare come in “Escalator”, ma la domanda rimane un dubbio ozioso che non avrà mai risposta.
Fortunatamente, però, “Escalator” è sopravvissuto alle nebbie del tempo ed è la bellissima prova tangibile di quello che è stato e – perché no – di quello che poteva essere.