Vincent Crane aveva fondato gli Atomic Rooster decisamente al momento giusto, quando hard rock e progressive erano sul punto di esplodere; il suo talento era indiscutibile, nel suonare e nello scegliere i musicisti di cui circondarsi.
E allora perché Vincent Crane e gli Atomic Rooster non stanno lì, sul piedistallo che la storia riserva ai Deep Purple, ai Black Sabbath, ai Led Zeppelin o ai King Crimson? Perché Vincent Crane apparteneva alla schiera dei geni folli, quelli come Syd Barrett e Peter Green. Ma raccontiamo la storia dall’inizio.
Crane era nato come Vincent Rodney Cheesman e aveva imparato a suonare da solo, diventando un buon pianista boogie; l’ascolto della Graham Bond Organisation lo convinse a passare all’organo e nel 1967 debuttò a livello professionale suonando con i Crazy World di Arthur Brown.
La loro tournee americana mise in luce alcuni aspetti incontrovertibili: la genialità dei due come musicisti e lo squilibrio come persone. Durante il tour Brown abbandonò per unirsi a una comune hippie, mentre Vincent tornò in Inghilterra con un esaurimento nervoso da manuale. Già allora il tastierista era affetto da sindrome bipolare e maniaco depressiva, tanto da dover ricorrere a qualche mese di ricovero in un ospedale psichiatrico, a Banstead. Risolti temporaneamente i suoi problemi, Crane propose a Carl Palmer, batterista nei Crazy World, di fondare una band: Palmer aderì e nacquero gli Atomic Rooster. Reclutato Nick Graham al basso, alla voce principale e – all’occorrenza – alla chitarra, i “galletti atomici” diedero alle stampe il primo, omonimo, album.
La musica era un impasto suggestivo di rock blues, accenni progressive e atmosfere hard ed esoteriche alla Black Sabbath, il gruppo coevo e maestro del genere.
Non era facile avere a che fare col genio malato di Vincent, e i tempi erano quelli dei cambiamenti repentini: Palmer abbandonò quasi subito per cercare gloria – e trovarla – negli Emerson, Lake & Palmer, prendendo anche qualche ispirazione dal disco degli Atomic Rooster; Graham si aggregò agli Skin Alley.
Crane, convinto del fatto suo, non fece una piega e arruolò lestamente John Du Cann, chitarrista e cantante di onesto e mestiere ma sempre a mezzo passo dal genio, e Paul Hammond, batterista dal tiro solido e affine a Ian Paice.
Con questa formazione e il tentacolare Crane a prendersi sulle spalle anche le linee di basso col suo organo, gli Atomic Rooster danno alla luce il loro risultato più alto: “Death Walks Behind You”.
Registrato nell’agosto del 1970 e pubblicato appena un mese dopo, il disco appare un prodotto di culto fin dalla copertina e dalle foto interne. La cover raffigura un’opera di William Blake, oscuro poeta, incisore e pittore inglese vissuto tra Settecento e Ottocento, i cui versi avevano ispirato già Jim Morrison nel dare il nome ai Doors; l’opera raffigurata è il “Nabucodonosor”, una stampa monotipica a colori con aggiunte di inchiostro e acquerello raffiguranti il re babilonese Nabucodonosor II dell’Antico Testamento.
Le foto interne all’album – coi tre musicisti in primo piano – sono state scattate al Churchfield Road Cemetery, una scelta ampiamente programmatica delle atmosfere di gran parte del lavoro. La musica segue la falsariga del primo album, inasprendo ancora i toni e abbracciando da una parte i temi gotici e macabri, dall’altra il verbo del progressive, con lunghe composizioni e ampie dissertazioni strumentali, ben sostenute dall’abilità tecnica dei tre musicisti.
L’album ottiene buon successo, e la critica ancora oggi lo ritiene uno dei lavori più riusciti nell’ambito di quel prog tendente all’hard rock, e per gli amanti del suono dell’organo Hammond, pur non essendo scevro da qualche imperfezione. Purtroppo la follia incipiente di Crane, diamante pazzo delle tastiere, fa presto a dare frutti malati: dopo “In the Hearing of Atomic Rooster”, con l’innesto di Pete French come vocalist (Crane non era soddisfatto della voce di Du Cann), problemi, liti e continui rimpasti nello schieramento, portano la band a un’instabilità che ne condizionerà pesantemente il successo.
“Death Walks Behind You” si apre col brano omonimo, probabilmente il capolavoro della band di Vincent Crane. Subito una serie una serie di accordi di pianoforte ci precipitano in un’atmosfera gotica, con un arpeggio che piano piano inizia a scivolare verso tonalità sempre più basse, con la chitarra di Du Cann che pare quasi stridere come la vecchia porta di un cimitero. Finalmente il piano trova pace centrando l’iconico riff del brano, subito doppiato dalla chitarra distorta di Du Cann, che inizia a declamare con voce sicura il testo, che pare uscire da un incubo di Edgar Allan Poe. “Death Walks Behind You” è uno di quei brani che poche band centrano una volta nella propria carriera, perfetto.
Verso la metà del pezzo il piano si concede un breve break di stampo quasi blues, prima che la chitarra riprenda il comando, rutilante. Il brano riprende il tema iniziale e si avvia alla conclusione dopo oltre sette minuti di compattezza granitica, vero capolavoro del doom quando il doom era ancora ai primi, inconsapevoli, vagiti. A conferma dell’influenza decisiva su tante band di gothic metal, il pezzo è stato coverizzato da complessi come i Paradise Lost e i Bigelf.
Il brano seguente è “VUG”, una cavalcata strumentale in puro stile progressive che alleggerisce un po’ la tensione dell’avvio così macabro. Lo stile è tra quello che faranno gli Emerson, Lake & Palmer e i Deep Purple, con l’organo di Crane a prendersi le luci della ribalta e la chitarra di Du Cann a fare da degno supporto, non troppo tecnica ma dotata di un feeling tangibile. In rete è possibile reperire un’esibizione live in cui gli Atomic Rooster eseguono questo brano: Vincent è uno spettacolo nello spettacolo. Appollaiato su uno sgabello, ricurvo come un avvoltoio vicino alla sua preda, assale le tastiere come un invasato, menando per aria i lunghi capelli corvini e le frange della giacca scintillante; Du Cann lo osserva con aria a metà tra ammirazione e sincera preoccupazione. Un vero spettacolo.
La successiva “Tomorrow Night”, forse il miglior successo commerciale della band, si apre di nuovo con gli accordi del piano, ma l’andatura cadenzata e – tutto sommato – più leggera si smarca subito dai momenti più cupi del disco. Una canzone sicuramente più leggera e meno legata al prog, che comunque ospita un bell’intermezzo all’Hammond, in uno stile affine a quello che farà la fortuna di Jon Lord e dei Deep Purple. Da segnalare anche la bella parte di chitarra di Du Cann, nel finale, satura e distorta, non troppo lontana da certi passaggi di Ritchie Blackmore.
I quasi sette minuti di “7 Streets” chiudono il lato A del vinile. Si tratta ancora di un brano dominato da chitarra e organo, di nuovo paragonabile ai Deep Purple, formazione Mk II. Un brano sicuramente più sbilanciato sul versante hard che non su quello progressive, dove la voce di Du Cann è forse il punto leggermente debole. Nella parte centrale prende il sopravvento un ferale duello organo-chitarra che davvero non ha nulla da invidiare alle paurose cavalcate di Jon Lord e Ritchie Blackmore, con gli strumenti che a un tratto si doppiano perfettamente. Sicuramente un passaggio che aumenta i rimpianti per un successo maggiore che la band avrebbe meritato, senza dubbi.
La seconda facciata si apre con “Sleeping for Years”, pezzo che si apre con un vero e proprio delirio di chitarra elettrica distorta, prima di lasciare spazio a un riff granitico in perfetto stile sabbathiano. Ancora una volta la voce di Du Cann è forse un piccolo tallone d’Achille, mentre il musicista si rifà ampiamente al suo strumento, vero dominatore del brano, con un assolo distorto di nuovo dalle parti di Blackmore per suono e attitudine.
“I Can’t Take No More” è forse il pezzo più leggero dell’intera raccolta, un efficace boogie blues sospeso di nuovo tra i Deep Purple e certi passaggi di chitarra che quasi ricordano i Led Zeppelin; è il riff, però, che fa la differenza, rendendo la canzone accattivante e orecchiabile. Se ne ricorderanno sicuramente quei volponi dell’Electric Light Orchestra qualche anno dopo, saccheggiando il riff per la loro celebre “Don’t Bring Me Down”.
La successiva “Nobody Else” è il passaggio più riflessivo e particolare dell’album, aperto da una bella parte di pianoforte, per una volta più solare e quasi melodica. Siamo stavolta in pieno ambito progressive, più delicato e classicheggiante, privo dei furori hard che permeano tutto il resto della raccolta. La parte centrale del brano è più sostenuta, con la chitarra lancinante di Du Cann a menare le danze, per poi riprendere come sempre il tema iniziale.
La conclusione del disco è tutta all’insegna del progressive più puro, spettacolare e virtuosistico, con gli otto minuti scarsi di “Gershatzer”, brano strumentale fatto apposta per mettere in mostra le doti dei tre musicisti. A prendersi la scena è soprattutto il leader, signore e padrone del gruppo, Vincent Crane, prima all’Hammond, poi con una bella e classica parte pianistica e poi con un’orgia rumoristica di nuovo all’organo; una cascata di note che mette bene in chiaro il suo genio strumentale, prima di lasciare le luci a un assolo di batteria di Paul Hammond, che anticipa in un certo senso quelli più celebri di tanti colleghi e a un orgiastico finale in cui anche Du Cann si fa sentire.
“Death Walks Behind You” è in sostanza un vero e proprio capolavoro che, solo per un capriccio del destino e per la follia di Crane, non è stato seguito da una carriera all’altezza. Oggi gli Atomic Rooster, band riservata all’ostinato culto di pochi, avrebbe potuto essere lì, al vertice dell’hard rock e del prog inglese, al pari di band entrate del mito.
E invece la parabola di Vincent Crane, tra la sindrome depressiva e l’abuso di sostanze chimiche, si sarebbe conclusa come peggio non poteva, il giorno di San Valentino del 1989, a Westminster, con il suicidio a porre fine a un’esistenza tanto geniale quanto tribolata.