Nel 1972 I Deep Purple erano una delle band più famose del mondo intero; “Machine Head” aveva praticamente riscritto le regole dell’hard rock e dettato quelle del nascente heavy metal; “Made in Japan” aveva alzato l’asticella dei live rock talmente in alto da non essere più raggiunta.
E – come capita a tutte le star – i Deep Purple ricevevano migliaia di lettere dai fan. La maggior parte erano di adorazione, ma non mancavano quelle critiche fino alla violenza verbale. Ricorda Ian Paice, in una famosa intervista a“Melody Maker”:
I Deep Purple ricevono pile di lettere appassionate sia violentemente contro che a favore del gruppo. Quelle arrabbiate iniziano generalmente con “Chi si credono di essere i Deep Purple…” (in inglese, Who do Deep Purple think they are…)”.
Tanti si sarebbero offesi, magari lasciando l’azione in mano agli avvocati, ma all’epoca i Deep Purple erano semplicemente cinque ragazzi giovanissimi che volavano alti col loro ego e pasteggiavano ad aragoste e champagne tutto l’anno:quelle offese li facevano solo ridere.
Al punto che decisero che il prossimo album l’avrebbero intitolato proprio così: “Who do we think we are”. La vita delle rockstar, però, non era solo caviale, macchine sportive e belle donne.
I Deep Purple erano in tour ininterrottamente da anni; giravano il mondo – condizione invidiabile – ma in modo così frenetico che spesso non riuscivano a vedere altro che il palco e la stanza d’albergo delle città che visitavano. L’ego dei componenti, inoltre, era più ingombrante dei camion che trasportavano i loro potentissimi impianti da una città all’altra, specialmente quello di Ritchie Blackmore, il bizzoso chitarrista poco incline ai compromessi, e quello di Ian Gillan, carismatico frontman.
I loro dissapori si erano fatti man mano più violenti e livorosi, fomentati dalle differenze di carattere e direzione musicale, nonché dalla forzata convivenza.
Avevamo appena terminato 18 mesi di tour, e prima o poi avevamo avuto tutti delle malattie gravi. Guardando indietro, se ci fossero stati manager decenti, avrebbero detto: ‘Va bene, basta. Voglio che andiate tutti in vacanza per tre mesi. Non voglio nemmeno che prendiate in mano uno strumento’. Invece ci hanno spinto a completare l’album in tempo. Avremmo dovuto fermarci. Penso che se lo avessimo fatto, i Deep Purple sarebbero rimasti assieme” dirà a proposito della situazione, tempo dopo, Ian Gillan.
Molto lucida anche l’osservazione di Jerry Bloom, scrittore e studioso del rock: “A quel punto, i Deep Purple avevano avuto un successo enorme. Il successo fa crescere la domanda, e la domanda richiede lavoro, il che significa che devi spendere più tempo insieme. In genere, quando spendi più tempo insieme, ti dai sui nervi a vicenda”.
La band, insomma, è diventata una macchina da soldi e i manager, dimostrando scarsa lungimiranza, cercano di ottenere il più possibile sulla breve distanza. Il risultato, in prospettiva, è quello di causare la fine del complesso. O comunque la sua trasformazione.
Ed è così che nasce il seguito di “Machine Head”, un disco che si accolla forzatamente l’improbabile responsabilità di replicare il successo e la qualità del precedente, nonché dell’iconico live “Made in Japan”. L’album nasce in due sessioni di registrazione distinte e nate sotto la cattiva stella delle liti tra Gillan e Blackmore; inciso con l’ausilio del Rolling Stones Mobile Studio, è diviso tra Roma e Francoforte, tra luglio e ottobre del 1972.
I segni del disastro ci sono tutti: le liti, la stanchezza di Ian Gillan, le session discontinue e infruttuose, la voglia di staccare la spina.
Eppure, all’epoca i Deep Purple – almeno come musicisti – sono in uno stato di grazia tale che, pur nell’occhio del ciclone, riescono comunque a dare alle stampe un lavoro ottimo che riscuote un enorme successo di pubblico. La critica è più tiepida, certo, e del resto pretendere che la band si confermasse ai livelli dei precedenti capolavori sarebbe stato chiedere troppo.
La copertina – non proprio un capolavoro – ritrae i cinque membri del gruppo dentro delle bolle, con scritte dalla grafica psichedelica; all’interno sono riportate dichiarazioni estratte da interviste, come quella di Paice riportata precedentemente.
Il suono è ancora compatto e roccioso, granitico come d’abitudine per la Mark II; a tratti paiono trionfare quelle pulsioni blues sempre corteggiate ma mai fino in fondo da Blackmore e soci. Per la prima volta, l’apporto delle tastiere di Lord è leggermente meno efficace, caratteristica che si sedimenterà negli album successivi.
L’apertura del lavoro è affidata a “Woman From Tokyo”, l’ultimo grande classico della formazione Mark II, scritta sull’onda del tour nel paese del sol levante e dominata dal consueto, maestoso riff di Ritchie Blackmore. Registrata nelle session di Roma, diventerà un cavallo di battaglia live, specie dopo la reunion del 1984, data fino a cui rimane anche l’ultimo singolo della formazione con Gillan e Glover. Il pezzo si avvale di un delicato bridge, psichedelico e melodico, come spesso usavano fare i Deep Purple all’epoca – vedi “Never Before” – e di un poderoso groove della sezione ritmica, oltre alla prestazione di Gillan, istrionica al punto giusto.
Lord, qui al pianoforte, dà il suo tocco nel finale, dove il brano pare quasi preso dal canzoniere degli Stones; timido l’apporto di Blackmore nella parte solista.
“Mary Long”, a seguire, è un pezzo che si caratterizza intanto per il testo polemico e sarcastico nei confronti di Mary Whitehouse e Lord Longman, riuniti nella crasi “Mary Long”, due personaggi noti come bigotti e moralisti dell’epoca. La Whitehouse si sarebbe ritrovata suo malgrado anche in “Pigs” dei Pink Floyd, anni dopo.
Il pezzo è un sostenuto mix tra hard rock e canonico rock’n’roll, molto efficace e con un Gillan in grande spolvero. Blackmore sottolinea con la slide, prima di cimentarsi in un bell’assolo quasi heavy che suona come ai bei tempi. Anche qui il pezzo si conclude con una curiosa parentesi psichedelica e orientaleggiante, dall’andamento quasi straniante.
La successiva “Super Trouper” si apre con un bel riff e propone un’andatura sostenuta con qualche frenata psichedelica, con la voce di Gillan trattata e filtrata con un effetto phaser. La somiglianza con “Bloodsucker”, la breve durata e un assolo di Blackmore tra funk e blues non proprio memorabile, fanno sì che il pezzo risulti non troppo incisivo, tanto che nel tempo il pezzo finirà abbastanza dimenticato.
La successiva “Smooth Dancer” propone un suono al 100% in stile Deep Purple; una cavalcata hard rock senza respiro, a perdifiato tra ritmica incalzante, riff e un ritornello non troppo efficace che ne diluisce la potenza e la portata hard. Finalmente – e questa è la notizia – torna sugli scudi Jon Lord con una parte d’organo che non è certo la migliore in carriera ma rinverdisce comunque i fasti dei dischi precedenti. Abbastanza latitante l’apporto di Blackmore, a testimonianza di un certo scollamento tra i vari membri del complesso: se brilla uno, si oscura l’altro e viceversa.
“Rat Bat Blue” si apre con un bel riff e, subito dopo l’attacco vocale di Gillan, ne propone un altro molto azzeccato. L’andamento è altalenante nei cambi di ritmo e a tratti sincopato, talmente efficace che pare proprio di sentire i Deep Purple al meglio. Lord si prende di nuovo la scena con un lunghissimo assolo dove sciorina tutte le sue abilità sia all’organo che in una parte dove pare suonare una sorta di clavicembalo. Blackmore si distingue per il gran lavoro ritmico e per i riff, ma latita ancora sulla parte solista.
La seguente “Place in Line” è uno dei pezzi più smaccatamente blues dell’intero repertorio del gruppo. L’atmosfera è quella di decine di classici: uno slow col tipico “staccato” che ha fatto la fortuna del Bo Diddley di “I’m a Man”, del Muddy Waters di “Hoochie Coochie Man” e dei Led Zeppelin di “You Shook Me”, giusto per citarne qualcuno. Gillan sfoggia un inedito vocione profondo da bluesman consumato, mentre Blackmore si prende il palcoscenico con una serie di assoli dove – per una volta – lascia pieno sfogo alle sue pulsioni blues, dimostrando di non aver nulla da invidiare a Clapton e Page, maestri inglesi del genere. Anche Lord si concede una bella parte d’organo, anche se a mancare sono comunque i celebri duelli con la chitarra del suo compare Blackmore.
“Our Lady” chiude il disco – e la prima parte di carriera della Mark II, ma allora non lo sa nessuno – in modo totalmente inaspettato. Pare quasi di sentire i Beatles, solo un po’ più compatti e duri. Le ispirazioni sono da ricercare in “I’m the Walrus”, ma anche in “Lucy in the Sky With Diamonds” o “With a Little Help From my Friends”. Gillan pare totalmente a suo agio, a testimonianza di una voglia nemmeno tanto latente di cambiare aria e suono.
Lord e Blackmore sembrano invece più tiepidi, quasi facessero il loro lavoro ritmico senza credere troppo nel brano, che risulta una bella ballata, compatta e orecchiabile, ma lontana anni luce dal suono a cui gli appassionati associano il nome dei Deep Purple.
“Wo do we think we are” è in definitiva un buon album, un lavoro che all’epoca pareva probabilmente di transizione, dopo i grandi capolavori precedenti, e che invece conteneva in sé i semi della distruzione.
Di lì a poco Gillan e Glover se ne vanno, i Deep Purple sosteranno per un po’ sull’orlo dell’abisso, prima che David Coverdale e Glenn Hughes arrivino a ridare ossigeno per un paio di dischi e che l’oscura parabola della meteora Tommy Bolin illumini ancora per un po’ i cieli dell’hard rock.
Chissà, sei manager avessero dato loro quei maledetti tre mesi di vacanza?