“All along this path i tread / My heart betrays my weary head / with nothing but my love to save / from the cradle to the grave” sono i versi riportati nel libretto di “From the Cradle” di Eric Clapton e che danno il titolo alla raccolta.
“From the Cradle” è tante cose assieme, ma per prima è il grande tributo al blues da parte di un artista che a questo genere deve praticamente tutto. Sedici cover che sono una vera e propria enciclopedia del blues, da quello elettrico di Chicago a quello acustico del downhome paludoso del Mississippi, da quello ibridato col rock’n’roll di Freddie King – uno da cui Clapton ha imparato anche come stare sul palco – a quello sanguigno e viscerale di Muddy Waters e Otis Rush.
Ma “From the Cradle” è anche il capolavoro della maturità di Slowhand, quello che dopo una carriera solista milionaria ma che non ha mai acceso i cuori dei fan della prima ora, riappacifica Eric col suo lato più selvaggio da Guitar Hero. Ma facciamo un passo indietro; dopo i fasti degli anni Sessanta, tra Yardbirds, John Mayall, Cream, droga e alcol, per molto tempo a Clapton rimangono a fare compagnia solo le ultime due.
Malinconico e depresso per temperamento, il chitarrista di Ripley mal digerisce fama e successo, si imbarca in una serie di scelte e relazioni non sempre felici e finisce per trascorrere la prima parte degli anni Settanta – il periodo che per età poteva essere quello migliore – praticamente sempre stonato da sostanze psicotrope e alcol. Quando riemerge dal suo inferno dorato e drogato, lo fa con un suono completamente nuovo, in cui annacqua esageratamente la formula psico-blues dei fortunati esordi.
I fan si dividono tra chi non gli perdona il nuovo sound rilassato e chi lo segue nella sua evoluzione: siamo pur sempre nel periodo della discomusic e a ridosso dei patinati e edonistici anni Ottanta. Parliamoci chiaro, i risultati commerciali gli danno ragione e Eric passa il decennio più sciagurato per il rock barcamenandosi tra uno stile di vita insostenibile e alterne fortune musicali. Droga, alcol, maltrattamenti alla moglie e odiose posizioni destrorse fanno da contraltare a vestiti firmati, paradisi tropicali e Ferrari cambiate come gli umili mortali si cambiano i calzini.
A livello musicale si passa da dignitose prove live, dove Eric fa sempre il suo – il doppio “Just One Night” – a famigerati album pop sotto la scellerata produzione di Phil Collins – l’inascoltabile “August” – fino a lavori senza infamia né lode, come “Journeyman” o “Money and Cigarettes”.
Gli anni Novanta si aprono con la tragica scomparsa del figlioletto Conor. Come in abusati cliché mitologici, l’eroe completa la sua discesa agli inferi: da lì può solo risalire. E il dolore straziante per la perdita del figlio è proprio il motore della rinascita di Clapton; si ripulisce definitivamente e centra un po’ per caso il successo milionario di “Unplugged”. Il ritorno alle radici dà sollievo all’animo e frutta paurosi incassi e finalmente Eric è libero di pagare il suo debito con la Musica del Diavolo.
“From the Cradle” – fatta eccezione per un paio di insignificanti sovraincisioni – è registrato come un vero e proprio live in studio; pare un ossimoro, ma funziona egregiamente. Il repertorio sciorina l’ABC del blues e la chitarra elettrica di Slowhand torna a fare scintille come non accadeva dai tempi gloriosi dei Cream e dei Derek and the Dominos. Ma quello che stupisce di più è la voce, da sempre punto debole del nostro.
In “From the Cradle” il canto di Eric è sanguigno, più nero di un predicatore del Mississippi degli anni ’30, tecnicamente perfetto; e proprio questo – paradossalmente – attira all’album le poche critiche negative: la voce di Eric è talmente fedele ai modelli originali da sembrare quasi una forzatura, in alcuni paddaggi Clapton riesce a essere la copia carbone di Otis Rush, ma fallisce nell’essere sé stesso.
Questione di gusti e punti di vista.
Per registrare il disco, il chitarrista inglese si avvale di una band tanto collaudata quanto formidabile. Dave Bronze al basso, Jim Keltner alla batteria, Andy Fairweather-Low alla seconda chitarra, Jerry Portnoy all’armonica a bocca e Chris Stainton alle tastiere. Della produzione si occupa lo stesso Manolenta – con Russ Titelman – a conferma di quanto il musicista tenga al progetto. L’album prende avvio con “Blues Before Sunrise”, vecchio standard di Leroy Carr. La versione di Clapton si rifà però a quella di Elmore James, il profeta della chitarra slide.
Ed è proprio lo strumento di Eric ad aprire le danze, sciorinando in piena sicurezza il celebre riff creato a suo tempo da Elmore; a sorprendere è però la voce, un ringhio nero e rabbioso come mai era stato negli anni del pop rock patinato, ma nemmeno nei timidi esordi vocali. Il pianoforte di Stainton sottolinea il tutto in perfetto stile boogie, manco fosse Johnnie Johnson, prima di arrivare all’assolo in cui Clapton ripassa tutti i cliché della chitarra slide blues. Un attacco al fulmicotone, anche se improntato alla totale classicità.
Il brano seguente è uno slow ricco d’atmosfera, “Third Degree”, scritto dal pianista Eddie Boyd con Willie Dixon, vero e proprio Shakespeare del blues. La voce di Eric è ancora una volta sofferta e scurissima, mentre la chitarra sfoggia un suono rotondo e pulitissimo, scevro dalla poderosa amplificazione del rock e quasi ai confini del jazz. Lo stile utilizzato è un vero e proprio tributo a T-Bone Walker, praticamente l’inventore della chitarra elettrica blues.
Si va avanti con “Reconsider Baby”, che con “Sinner’s Prayer” costituisce un omaggio a un altro dei grandi padri del blues, Lowell Fulson, grande voce e chitarrista dallo stile semplice ma efficace. Fulson non è certo tra i nomi più ricordati e la presenza di ben due brani a sua firma fa capire la cultura musicale di Clapton all’interno del genere.
La seguente “Hoochie Coochie Man” non ha bisogno di presentazioni: scritta dal solito Dixon e resa proverbiale da Muddy Waters, è una delle canzoni più coverizzate di tutto il blues. Le sue celebri parti in “staccato” e l’andamento sincopato sono resi con certosina precisione dalla band. “Five Long Years” è ancora uno slow scritto da Eddie Boyd, ma qui Clapton afferra per le corna il demone blues che agita la sua Stratocaster e propone un suono ben più corposo e in linea coi suoni più robusti del rock. Il pezzo è riuscitissimo, una vera goduria per gli appassionati di chitarra elettrica, eppure un dubbio inizia a farsi strada nell’ascoltatore più smaliziato: tutto suona troppo perfetto, quasi che i lick di chitarra fossero studiati a tavolino, con poco spazio per l’improvvisazione, fondamentale nel genere. Non solo, Clapton cambia stile in ogni pezzo in modo repentino; lo fa in modo credibilissimo, certo, tuttavia – rispetto ad altri grandi del suo strumento – pare quasi in difficoltà nell’esprimere il suo personale stile, rendendo il lavoro un perfetto bignami della musica a dodici battute, ma un po’ freddo e impersonale.
“I’m Tore Down” è uno splendido shuffle e il sentito omaggio a Freddie King, corpulento chitarrista texano scomparso giovanissimo, a cui Eric ha più volte dichiarato di dovere tantissimo, e con cui ha condiviso molte volte il palco negli anni Settanta. Si prosegue con tre pezzi ancora molto diversi per atmosfere e intenzioni, “How Long Blues”, classica al punto da sembrare uscire dagli anni Trenta, “Goin’ Away Baby”, mossa e adrenalinica al punto giusto e la nerissima “Blues Leave Me Alone”.
“From the Cradle”, al netto dei dubbi sulla personalità espressi, sarebbe una perfetta bibbia del blues, se finisse qui; e invece il buon Eric inserisce altri sette brani, tutti suonati benissimo e vero piacere per le orecchie dell’appassionato, che però hanno un difetto: sono intercambiabili coi pezzi precedenti. E allora ecco “It Hurts Me Too”, altro omaggio a Elmore James, “Someday After a While” e “Groaning The Blues”, splendidi slow con Stratocaster ululante ma molto simili ai precedenti, e “Standin’ Round Crying”, altro tributo a Muddy Waters. Si staglia, sincera e diversa grazie all’arrangiamento acustico, “Motherless Children”, pezzo più melodico e affine al folk del lotto.
Riannodando tutti i fili sparsi finora, “From The Cradle” è un disco di qualità sopraffina, con un suono all’altezza di quello tanto amato dai cultori del rock del bel tempo che fu. Non solo, il disco è una vera enciclopedia del genere blues, terreno per ore e ore di studio per il chitarrista appassionato. Inoltre, il lavoro è senza dubbio il più viscerale e sanguigno della carriera solista di Clapton, il più fedele al genere da lui prediletto. Tuttavia, l’eccessiva lunghezza e i troppi cambi camaleontici di pelle di Eric, ne fanno a tratti quasi un esercizio di stile, togliendo qualcosa alla riuscita altrimenti ottima del disco.