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“Non al denaro non all’amore né al cielo” di Fabrizio De André

Non al denaro non all'amore né al cielo - De André

“Non al denaro non all’amore né al cielo” esce l’11 novembre del 1971 ed è la terza prova in cui Fabrizio De André si cimenta con un concept album.

“Tutti morimmo a stento” 

del 1968 aveva già in parte chiarito la grande statura di De André, non solo come paroliere e musicista, ma anche come innovatore e per la sua abilità nel circondarsi di collaboratori validissimi. L’album era stato ispirato al cantautore genovese dall’ascolto di “Days of future passed” dei Moody Blues, uno dei primi concept album del rock e disco a cui si fa risalire convenzionalmente l’inizio del movimento progressivo, e dalla Cantata settecentesca.

Dell’anno prima era invece La Buona Novella, un album perfetto nell’equilibrio tra musica e liriche, quasi provocatorio nel raccontare la storia di Gesù, tra Vangeli ufficiali e apocrifi, in un periodo in cui l’impegno sociale degli artisti proponeva ben altre istanze. Il disco, però, è talmente riuscito da essere considerato da molti il più riuscito concept italiano.

Non erano però le uniche esperienze di Fabrizio con questo particolare genere di album; “Senza orario senza bandiera” dei New Trolls, band concittadina, aveva infatti visto la sua collaborazione nella stesura dei testi. E proprio un’operazione simile sta alla base di “Non al denaro non all’amore né al cielo”.

L’idea iniziale è infatti da attribuire a Sergio Bardotti, produttore e paroliere molto prolifico, e pensata per il cantante Michele, allora molto in voga. E l’idea è semplice ma efficace: tradurre in musica alcune poesie tratte dalla celebre “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters, opera scritta nel 1915 ma pubblicata in Italia solo nel 1943, con la traduzione di Fernanda Pivano.

La silloge di Masters

è basata su un singolare artificio narrativo, quello di far raccontare in prima persona la propria vita ai morti del cimitero di Spoon River; quello che ne viene fuori è un grande affresco umano e sociale dell’epoca in cui visse l’autore. La sfida del disco di De André è quella di riportare all’attualità e alle istanze sociali dei primi anni Settanta le liriche dell’autore, lasciando al tempo stesso invariata la qualità delle composizioni.

In un primo momento per le musiche viene coinvolto Gian Piero Reverberi, già con Fabrizio nel disco per i New Trolls, ma quando il progetto passa da Michele al cantautore genovese, alcuni contrasti col diverso entourage lo fanno desistere. A occuparsi degli arrangiamenti e della composizione, in collaborazione con De André, è l’allora giovanissimo Nicola Piovani.

Per gli adattamenti dei testi c’è già una prima proposta di Giuseppe Bentivoglio, giudicata interessante dallo stesso Fabrizio, che ha già collaborato con l’autore per “La ballata degli impiccati”. De André si mette al lavoro sugli adattamenti: amplia, traduce, riadatta, e alla fine il risultato è talmente buono da ottenere il plauso della stessa poetessa e traduttrice Fernanda Pivano: “Fabrizio ha fatto un lavoro straordinario; lui ha praticamente riscritto queste poesie rendendole attuali, perché quelle di Masters erano legate ai problemi del suo tempo, cioè a molti decenni fa.”

La parte musicale del disco

mette in luce un aspetto spesso sottovalutato di Fabrizio De André. Artista sospeso tra la scuola genovese di Luigi Tenco, Umberto Bindi, Gino Paoli e Bruno Lauzi, tra il pop sofisticato e d’autore degli anni Sessanta – quello di Sergio Endrigo e degli arrangiamenti di Morricone – e la seconda ondata di cantautori che vedrà nomi come Guccini e De Gregori, De André ha sempre posto in grande rilevanza l’aspetto musicale. Studioso di antiche forme di canzone, dalla ballata alla cantata, ma molto aperto alle nuove istanze progressive, per questo disco Fabrizio fa le cose in grande, circondandosi di una vera orchestra e di grandi nomi.

Il periodo è quello in cui band come i New Trolls, Le Orme, la PFM e il Banco – per dirne alcune – sta premendo per far nascere il rock progressivo italiano, e anche il concept di De André ne trae alcune caratteristiche, specie nella bellissima epsichedelica “Un Ottico”.

Ma vediamo come suona questo capolavoro della musica italiana.

L’ouverture è affidata a “La Collina”

pezzo dal sapore quasi western e morriconiano che propone una serie di personaggi, per poi concludersi con un accenno al suonatore Jones, carattere particolarmente caro a De André, che tornerà nel finale.
Troviamo così uomini morti sul lavoro, stroncati da malattie, uccisi nelle risse oppure “chi uscì già morto di galera”. Donne morte per aborto o per amore, o chi venne “uccisa in un bordello dalle carezze di un animale”. Il tipico antimilitarismo deandreiano si affaccia con le storie dei caduti in guerra e dei loro generali: “Dove sono i generali che si fregiarono nelle battaglie con cimiteri di croci sul petto? Dove i figli della guerra, partiti per un ideale, per una truffa, per un amore finito male? Hanno rimandato a casa le loro spoglie nelle bandiere legate strette perché sembrassero intere”. L’accenno finale al suonatore Jones, violinista in Masters e flautista per motivi di metrica nel disco, è particolarmente significativo e dà il titolo alla raccolta: “che offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero, non al denaro, non all’amore né al cielo”.

Tutto fa inoltre pensare che De André riconoscesse in Jones una sorta di suo alter ego.

Il primo personaggio introdotto è il Frank Drummer dell’antologia originale, in “Un Matto (Dietro ogni scemo c’è un villaggio)”. Si tratta della storia che ognuno di noi può riconoscere del tipico “scemo del paese”, quello che non riesce a esprimere il suo mondo interiore e viene deriso dai compaesani. Innegabile è l’empatia di Fabrizio per questo personaggio e per la sua generosità utopica, quando tenta di imparare la “Treccani a memoria” nell’intento di trovare le giuste parole. Il matto è visto come una figura poetica, senz’altro più capace di vedere dentro le persone di quelli che lo deridono ed umiliano.

“Un giudice” 

è forse il pezzo più celebre dell’album. Ispirato a Selah Lively, narra la vendetta di un uomo da sempre deriso per la bassa statura che diviene giudice, arbitro in terra del bene e del male, e si prende la soddisfazione di far pagare le antiche umiliazioni patite. Una ballata sostenuta da un andamento musicale sostenuto, col fischio di Alessandro Alessandroni, simile ad alcuni brani già incisi dal cantautore. Il testo vanta passaggi da antologia, come i celebri versi: “La maldicenza insiste/Batte la lingua sul tamburo/Fino a dire che un nano/È una carogna di sicuro/Perché ha il cuore troppo/Troppo vicino al buco del culo.

Un vero capolavoro e una denuncia efficace di un certo modo di dispensare la giustizia, ma anche sul bullismo e sui suoi effetti malati.

Si va avanti con “Un blasfemo”, tratta da Wendell P. Bloyd e che narra la storia di un uomo imprigionato e picchiato per aver sostenuto che Dio fosse tutta un’invenzione, una divinità malata che punisce gli uomini perché hanno imparato a pensare con la loro testa. Una metafora più del potere, che della religione.

La melodia cristallina del brano è tratto da “Rambleaway” di Shirley Collins, bravissima artista folk britannica, già citata da De André in “Geordie”.

“Un malato di cuore” 

è tratto dalla poesia dedicata a Francis Turner, uomo affetto fin dall’infanzia da un disturbo cardiaco che gli impedisce di dedicarsi alle normali attività, emarginandolo e condannandolo a sognare quella che per gli altri è semplice normalità.

Il brano è pervaso da una dolcezza malinconica quasi straziante: “come diavolo fanno a riprendere fiato […] e mai poter bere alla coppa d’un fiato, ma a piccoli sorsi interrotti”. La canzone chiude il primo lato del disco, quello incentrato sul tema dell’invidia, tra la dolcissima malinconia, la voce profonda e ispirata di De André e i vocalizzi di Edda Dell’Orso. A differenza degli altri personaggi, però, il malato trova il suo compimento nel concedersi per una volta – fatalmente – alla vita e non in una inutile vendetta.

“Un medico”

Il secondo lato, secondo molte interpretazioni, è invece incentrato sulla scienza, coi suoi pregi e difetti, e si apre con “Un medico”, ispirato alle liriche su Siegfried Iseman. Nel tipico stile da ballata deandreiana si narra la storia di un medico idealista che viene subito sfruttato dai colleghi – il “sistema” – per la sua generosità. Quando decide di rivalersi, cercando di vendere truffaldine pozioni, viene arrestato e diffamato, pagando per tutti.

“Un chimico” 

si basa sulla poesia di Masters che rievoca la vita di Trainor, il farmacista. L’uomo – tanto abile a mescolare gli elementi chimici – si trova invece in difficoltà a gestire i sentimenti. Mai innamorato e sposato, cinico e disilluso riguardo all’amore, muore, per ironia della sorte, proprio “in un esperimento sbagliato, proprio come gli idioti che muoion d’amore”. La forma musicale è ancora quella cara a De André di tante sue ballate, col contributo di un organo elettrico e di nuovo dei contrappunti della Dell’Orso.

“Un ottico” 

è sicuramente il brano più complesso della raccolta, evocando gli scenari psichedelici che vengono trattati anche nel testo. La storia è quella di Dippold, ottico che vorrebbe vendere ai suoi clienti “occhiali speciali” per fargli vedere il mondo più bello. La versione di De André pare alludere a paradisi artificiali – “non più ottico ma spacciatore di lenti” – e la musica segue le parole in un succedersi di temi incalzanti. La voce del cantautore è effettata, sdoppiata come mai prima o dopo: è forse il pezzo più sperimentale della sua carriera. Per l’unica volta in tutto il disco, a parlare in prima persona non è solo il protagonista della canzone, ma anche i suoi clienti, tra accelerazioni e parti rocciose ai limiti del rock progressivo. Un esperimento sicuramente riuscito.

Per chiudere un capolavoro del genere ci voleva un brano all’altezza: “Il suonatore Jones” è uno dei brani più belli dell’intero canzoniere di De Andrè e vero manifesto artistico.

La canzone è l’unica a riportare lo stesso titolo della poesia di Masters, anche se Jones diventa flautista anziché violinista, per ragioni meramente metriche. L’immedesimazione del cantautore è palese: Jones suona ogni volta che gli viene richiesto, beve e vive senza pensare al domani, innamorato di una libertà che sta nell’offrire la sua arte agli altri e non nel lavorare per accumulare ricchezze. Il tema musicale è da brivido, perfettamente attinente a cavalli di battaglia come “Marinella” o “Via del Campo”.
Un capolavoro.

Si chiude così un disco fantastico e irripetibile, anche se Fabrizio De André continuerà a suonare – come il suonatore Jones – per tutta la vita, donando al suo pubblico altri eccezionali lavori.

Perché “…se la gente sa/E la gente lo sa che sai suonare/Suonare ti tocca/Per tutta la vita/E ti piace lasciarti ascoltare.

— Onda Musicale

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