Siamo nell’estate del 1974, quando Neil Young pubblica “On the Beach”. Il disco costituisce il secondo capitolo dell’oscura “Trilogia del dolore”, incisa dal cantautore canadese a metà anni Settanta.
In realtà, l’album è cronologicamente il disco che chiude il trittico, essendo stato registrato successivamente a “Tonight’s the Night”, e la cosa si intuisce anche per l’atmosfera leggermente meno cupa rispetto agli altri due lavori. Si tratta tuttavia di sfumature, tanto “Rolling Stone” arrivo addirittura a definire “On the Beach” come “uno dei dischi più disperati del decennio”.
Ma perché Neil Young – uno dei pilastri del rock già all’epoca – era così disperato? I fattori erano molteplici; il grande sogno che alla fine degli anni Sessanta aveva unito la sua generazione, il mondo della musica rock e la realtà nascente degli hippie e del pacifismo, era tramontato con l’avvento del nuovo decennio. La guerra del Vietnam che continuava a mietere vittime, la strage di Cielo Drive a opera della Family di Charles Manson e il fallimento dell’impegno politico, avevano reso il sogno di pace dei figli dei fiori ormai agonizzante.
Il mondo del rock, inoltre, iniziava a ragionare secondo rigidi cliché, col fenomeno di superstar sempre uguali a sé stesse e sempre meno votate al furore della creatività. Il paradiso delle droghe, poi, si era rivelato un inferno senza ritorno per tanti artisti, tra cui Danny Whitten e Bruce Berry, amici e collaboratori di Young; Neil avrebbe provato per anni assurdi sensi di colpa legati alla tragica fine dei due.
Sul fronte familiare le cose non andavano molto meglio; la storia con l’attrice Carrie Snodgress era infatti ai titoli di coda e in più il loro unico figlio Zeke era risultato affetto da una grave malattia. La “Trilogia del Dolore”, avviata l’anno precedente con l’ostico “Times Fade Away”, era per molti un vero e proprio suicidio commerciale, e in tre anni rischierà di affossare definitivamente la carriera di uno degli artisti di maggior successo dell’intero movimento rock.
Le registrazioni di “On the Beach” avvengono in parte al “Broken Arrow”, il ranch californiano di Neil Young; in quel periodo il posto è frequentato dal bizzarro artista Rusty Kershaw. L’uomo è una figura a metà tra il musicista country e il figlio dei fiori; è dedito al consumo smodato di droghe più o meno leggere e incita Neil ad aprirsi alle influenze più disparate, dal country al folk, dal bluegrass al blues rurale. Young lo tiene in tale considerazione da affidargli perfino la scrittura delle note che accompagnano il disco.
La formazione della band è in quel periodo fluida e caotica quanto lo è la psiche di Neil Young; tra collaboratori più o meno fissi come Billy Talbot e Ralph Molina e altri che si alternano in modo più o meno disorganico, ci sono anche vecchi e illustri amici. David Crosby suona la chitarra ritmica in “Revolution Blues” e, quando scopre che il brano cita palesemente Charles Manson, si pente della partecipazione, spaventato da possibili ritorsioni; Graham Nash suona il piano elettrico nel pezzo che dà il titolo alla raccolta; Rick Danko e Levon Helm della Band suonano in alcuni brani.
A dispetto dello stile a cui Neil Young ha abituato un po’ tutti, il lavoro va oltre la tipica divisione tra delicate ballate folk e acide svisate elettriche; non solo, il solito gusto melodico di Neil è messo un po’ da parte, a favore di scheletrici blues.
Gli arrangiamenti sono scarni e ruvidi, sciolti fili pendenti che i musicisti tentano di tenere insieme in assenza di vere e proprie partiture; un canovaccio che Young in quel periodo era particolarmente avvezzo a usare.
I testi sono cinicamente disincantati a proposito della fine del sogno, ma non mancano di toccare vertici lirici nella produzione di Neil; molto più che in passato – e di quanto farà in futuro – Young fa ricorso alla formula del blues, la musica che ha dato i natali al rock ma che – paradossalmente – si svilupperà in quegli anni più in Gran Bretagna che nella patria d’origine. Pur non ricorrendo alle tipiche distorsioni, Neil Young mette insieme una serie di prestazioni notevoli alla sei corde, con assoli ora acida, ora lirici.
La copertina, ideata dallo stesso Young, è fortemente simbolica. La spiaggia è quella di Santa Monica, ma la California del sole e del surf è lontana: pare un mare invernale, con Young completamente vestito che – di spalle – fissa l’immensità dell’oceano. Un quotidiano riporta delle notizie sullo scandalo Watergate, e una Cadillac insabbiata simboleggia in modo inequivocabile l’affondamento del sogno americano.
Il disco si apre con “Walk On”, pezzo dall’andamento country elettrico e quasi allegro; il testo è però pieno di livore verso certa critica che gli rimprovera il tenore depresso dei suoi brani, mentre in alcuni versi pare di ravvisare anche un ulteriore capitolo della polemica che lo vedeva opposto ai sudisti Lynyrd Skynyrd. Un avvio che tutto sommato apre uno spiraglio di luce e che riporta Neil Young nella classifica dei singoli.
La successiva “See the sky about to rain” riporta alle vecchie atmosfere del più classico Young, quello di “Harvest”, per intenderci; e infatti il brano, una etera ballata aperta dalle note di un piano elettrico Wurlitzer, risale addirittura al 1971. Il cantautore, mai convinto appieno dal pezzo, lo aveva lasciato ai Byrds, per poi inciderlo in questa splendida versione. Davvero non si capiscono i dubbi del buon Neil: la ballata è bellissima e il testo particolarmente evocativo, uno dei più bei pezzi del suo canzoniere.
“I see bloody fountains, and ten million dune buggies, comin’ down the mountains. Well I hear that Laurel Canyon is full of famous stars. But I hate them worse than lepers, and I’ll kill them in their cars” sono I versi che aprono “Revolution Blues”, apertamente dedicati a Charles Manson, che addirittura parla in prima persona, e introducono uno dei pezzi più belli e amari della carriera di Neil Young. Il tema, veicolato dalle parole di Manson, carnefice e capro espiatorio del sogno dell’estate dell’amore al tempo stesso, è sempre quello del disincanto. Come detto, David Crosby impallidì nell’ascoltare i versi riportati e, dopo aver inutilmente tentato di convincere Young a eliminarli, prese a girare armato.
Il terrore – non del tutto infondato – era quello che qualche squilibrato eseguisse alla lettera le parole del testo. Musicalmente il pezzo ha un andamento da blues claudicante, con un assolo di chitarra particolarmente abrasivo; ma quello che rimane impresso è il cantato di Neil, efficacissimo e che rimanda più che mai alla perentorietà di un giovane Bob Dylan. Un pezzo che se ne va diritto negli annali della storia del rock.
La successiva “For the Turnstiles” pare arrivare diritta da qualche recupero di registrazioni degli anni Venti, di quelle di storici come Alan Lomax, con Neil Young che canta e si accompagna col banjo e Ben Keith che lo doppia nel ritornello e punteggia il tutto con le note del suo Dobro. Un bozzetto godibilissimo e filologicamente molto credibile.
“Vampire Blues” chiude la prima facciata. Si tratta ancora di un blues canonico anche nella struttura ritmica e del testo, con un curioso passaggio ecologista ante litteram; “Sono un vampiro e succhio il sangue dalla terra” dice Young, per poi rivenderlo dentro ai barili: Greta non avrebbe fatto di meglio! La parte musicale è quella di uno scarno e classico blues, quasi sullo stile di John Lee Hooker. Tim Drummond suona una carta di credito sfregandosela sulla barba ispida e incolta, mentre Neil sfoggia un suono pulito da vero bluesman che però sfrutta per un assolo stridente.
La seconda facciata si apre con “On the Beach”, il pezzo che dà il titolo all’album e che segna un altro capitolo della psicanalisi che Neil Young porta avanti tramite le sue canzoni. La struttura è ancora quella del blues, ma la chitarra tintinnante di Young, abbinata al Wurlitzer suonato qui da Graham Nash e alle percussioni di Ben Keith, conduce l’ascoltatore in un’atmosfera straniante e ipnotica, di crescente angoscia. Il testo è un flusso di coscienza che veicola le confessioni di Neil. “Ho bisogno di una folla di gente, ma non posso affrontarla giorno dopo giorno”, e ancora “Ora vivo qui sulla spiaggia, ma i gabbiani volano ancora lontani”: sono versi che simboleggiano la futilità del successo e una serenità che Young non riesce più a trovare nel successo.
L’assolo di chitarra è micidiale, diviso tra passaggi acidi e blues e un’apertura melodica nel ritornello che quasi commuove. Un vero, grande capolavoro.
“On the Beach” è sicuramente il climax emotivo del disco, posto così, in apertura del secondo lato, quasi a cogliere l’ascoltatore con le difese abbassate; tuttavia c’è ancora spazio per un paio di pezzi egregi, che fanno quasi da camera di decompressione e aiutano a uscire dall’atmosfera del disco senza troppi danni.
“Motion Picture (For Carrie)” è una bella e classica ballata dedicata a Carrie Snodgress, compagna del cantante dal 1971 e al ’74 e mamma di Zeke. Young si attribuirà la colpa della fine della storia, ammettendo che spesso – tornando al ranch – aveva abbracciato più volte la sua chitarra che Carrie. La ballata è di una dolcezza struggente, musicalmente sospesa tra folk e country, con la voce di Neil inusualmente chiara in primo piano.
La conclusiva “Ambulance Blues” venne definita da Stephen Holden di Rolling Stone il maggior sforzo compositivo dell’intera carriera di Neil Young. Il mastodontico brano – nove minuti e passa – è effettivamente un condensato del pensiero del cantautore. Le liriche affrontano temi disparati, dal Watergate alla doppiezza di Nixon, dai rapporti travagliati con la critica a quelli non meno duri con Crosby, Stills e Nash. La canzone cita – a detta dell’autore senza volere – la bella “Needle of Death” di Bert Jansch, bravissimo chitarrista acustico britannico che Young stima moltissimo. All’epoca “On the Beach” vende bene ma non benissimo, risultando il secondo disco di fila che non riesce a replicare i grandi numeri cui Neil era solito. Negli anni, però, il lavoro viene giustamente rivalutato: oltre che la fotografia di un artista nel suo periodo più difficile, “On the Beach” è un disco fatto di canzoni bellissime.
Alcuni addirittura, si azzardano a definire il disco il vero capolavoro di Neil Young, artista dalle mille vite e dall’insuperabile statura musicale