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David Byrne e la vita attraverso il caleidoscopico American Utopia

David Byrne American Utopia
David Byrne American Utopia

Nel 2018 dopo 14 anni di assenza Byrne è tornato a stregare i suoi fan con un concept poliedrico e maestoso: il ventesimo album solista registrato interamente nel suo studio casalingo a New York.

Chi è David Byrne? Un uomo alienato, eppure profondamente immerso nella realtà. Un provocatore. Un antropologo, un etnomusicologo, un genio rapito dall’esotico. L’ex Deus ex machina dei Talking Heads poco dotato vocalmente per natura, ha egregiamente supplito a tale mancanza con un’abilità compositiva straordinaria, creando uno stile vocale tutto suo, fatto di fuori tempo, di stonature e storpiature della frase musicale. Nel 1988 ha vinto un Oscar per la colonna sonora de L’ultimo imperatore, pluripremiato film del regista italiano Bernardo Bertolucci; nel 2012 porta a casa anche due David di Donatello per miglior musicista e migliore canzone originale.

Nella sua lunga carriera Byrne ha composto ben dieci album solisti, tutti caratterizzati da sound decisamente diversi fra loro, cospicui di contaminazioni tra innumerevoli generi, spaziando dagli archi classici di Feelings, ai toni spensierati di Oh-Ho ed al più art rock omonimo David Byrne. Ma stavolta, con American Utopia si è davvero superato.

«Queste canzoni non descrivono un luogo immaginario o irraggiungibile, ma rappresentano piuttosto il mondo in cui viviamo adesso. Molti di noi, almeno credo, non sono molto soddisfatti di questo mondo, ci guardiamo intorno e pensiamo: “ma dev’essere per forza così? Non c’è un’alternativa? Le canzoni parlano di questo»

Una mappatura dell’America, dall’Alaska al Nuovo Messico, dal Kansas al Colorado passando attraverso piccole comunità, che si trasformano in vere e proprie evocazioni: Truth, Good Intent, Two Egg, Last Chance, Nogales, Bullfrog. O Selma, in Alabama, da dove partì la famosa marcia per i diritti civili guidata da Martin Luther King, fino a Montgomery. Viviamo in un mondo fatto di microscopiche, infinite assurdità che fanno parte di uno scenario condiviso. Ma sotto l’apparente velo di rassegnazione e pessimismo contemporaneo si nasconde, palesemente, tutt’altro messaggio.

«Questo è un album di impulsi e aspirazioni. A volte descrivere significa rivelare, scoprire nuove possibilità. Farsi una domanda vuol dire iniziare a cercare la risposta, il domandare è importante. Sono canzoni sincere, il titolo non è ironico. Voglio parlare delle nostre nostalgie, aspirazioni, frustrazioni, paure e speranze».

Quella di Byrne è una creatività brillante, incredibilmente cangiante, che gli permette di creare, rimanendo sempre se stesso ma risultando ogni volta innovativo e diverso. Sicuramente perché sceglie di attingere dalle più disparate tradizioni culturali, che come colorate tessere di un mosaico si inseriscono perfettamente in armonia nelle tessiture dei suoi brani. In ‘American Utopia’ si distinguono perfettamente, ad esempio, ritmi caraibici e percussioni latine, insieme ad alcuni espliciti rimandi alle delicate e misteriose sonorità dell’Estremo Oriente. I suoi sono tappeti musicali che portano lontano.

American Utopia è anche un libro, scritto da Byrne in collaborazione con una vecchia amica fedele, Maira Kalman. Racconta attraverso le parole le canzoni di Byrne accompagnate da oltre 150 illustrazioni.

Il testo è ispirato all’omonimo spettacolo andato in scena con enorme successo a Broadway e su cui Spike Lee ha girato un film nel 2020. Le immagini del libro ripercorrono visivamente la scenografia dello spettacolo, composta di frammenti, movimenti, espressioni, danze.

«There’s only one way to read a book / And there’s only one way to watch tv / Well there’s only one way to smell a flower / But there’s millions of ways to be free».

L’intento del concept è tanto temerario quanto genuino: ricordarci che, anche quando ci sembra di aver toccato il fondo, non è tutto finito. C’era davvero bisogno che fosse Byrne a ricordarci che possiamo essere liberi in infiniti modi, così diversi? Forse sì.

— Onda Musicale

Tags: David Byrne, Brian Eno
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