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461 Ocean Boulevard, la rinascita di Eric Clapton in Florida

Clapton ai tempi di 461 Ocean Boulevard

461 Ocean Boulevard è da molti considerato il disco della rinascita di Eric Clapton; di più, qualcuno si spinge a ritenerlo il vero esordio solistico di Eric, dopo il debutto del 1970 con un disco eterogeneo e un po’ confuso.

Eric Clapton, nel 1974, è un giovane uomo di ventinove anni che ha già vissuto tante avventure che basterebbero per tre vite. Ha conosciuto un’infanzia difficile che lo ha segnato profondamente, ma anche il grande successo; è stato l’idolo indiscusso di Londra per qualche anno e ha girato l’America da superstar. Ma Eric ha anche attraversato l’abisso della dipendenza dall’eroina.

Cresciuto in una famiglia semplice, il piccolo Eric scopre ben presto che quelli che sa essere i genitori sono in realtà i suoi nonni. La madre si è rifatta una vita in Canada e, quando Eric sarà più grande, non lo vorrà mai con sé, preferendogli i fratelli.
La ferita non guarirà mai e il trauma condizionerà non poco le scelte del chitarrista.

Eric, per sua stessa ammissione, non è mai contento; è bravo nel conquistare quello che vuole e il suo talento è sopraffino. Tuttavia, non appena raggiunge il traguardo prefissato, Eric si demotiva e pare disinteressarsi. È così con gli Yardbirds, abbandonati quando erano giunti alla notorietà e col mentore John Mayall, da cui fugge per fondare i Cream.

Proprio il gruppo fondato con Ginger Baker e Jack Bruce è l’esempio perfetto dell’attitudine di Clapton. I Cream inventano un genere nuovo, l’hard blues psichedelico, hanno un successo planetario, eppure Eric si stanca presto. Certo, la convivenza di tre talenti così è difficile e sono soprattutto Ginger e Jack a litigare; tuttavia, è Eric a mollare perché non ne può più del ruolo di chitarrista virtuoso.

Insegue per anni Steve Winwood e alla fine con lui dà vita ai Blind Faith; è ancora un successo strepitoso ma Eric si invaghisce del suono tutto americano di Delaney & Bonnie. Dopo l’avventura con Derek & The Dominos e il debutto solista, all’alba degli anni Settanta, Eric inizia la sua personale discesa agli inferi.

Se da un lato non si dà pace musicalmente, a livello sentimentale Eric colleziona una storia sbagliata dopo l’altra. Il suo grande amore è Pattie Boyd, moglie dell’amico George Harrison, che sa di non potere avere. Non ci vuole uno psicanalista per capire come il rifiuto materno influisca pesantemente sul comportamento di Eric, fatto sta che il chitarrista si rifugia tra le braccia dell’eroina.

Sono anni in cui il mondo del rock è pervaso dalle sostanze psicotrope; all’inizio si dice per allargare le coscienze, poi – a movimento psichedelico tramontato – le droghe rimangono solo come sballo. Eric cerca di tenersi lontano dall’eroina, ma alla fine cade. I primi anni dei ’70 sono così vissuti da Clapton in stato di perenne stordimento, tra la villa di Hurtwood e progetti musicali inconcludenti.

Una volta uscito – con una serie di avventure che meritano una trattazione a sé – dal tunnel, Eric torna in pista. Il suo progetto è cambiare totalmente suono; dicendo basta ai virtuosismi, Slowhand abbraccia un sound rilassato e americaneggiante. La nuova band sarà composta da musicisti a stelle e strisce, conosciuti ai tempi di Derek & The Dominos.

Robert Stigwood, manager e produttore che lo conosce bene, mette insieme la band e gli fa trovare tutto pronto per registrare in Florida.

La casa che gli affitta è situata al 461 Ocean Boulevard. Clapton è entusiasta di lavorare in particolare con Carl Radle, il bassista; i due vanno d’accordo ed è proprio l’incoraggiamento di Radle a essere decisivo per scuotere il chitarrista dal suo torpore artistico.

La band è completata da Dick Sims alle tastiere e da Jamie Oldaker alla batteria. Il 461 Ocean Boulevard, però, diventa presto un porto di mare; le dipendenze di Clapton all’epoca sono passate dalla droga all’alcol e i musicisti sono spesso e volentieri ubriachi. In un carosello senza logica si aggiungono alla band musicisti estemporanei e altri che entrano a far parte in pianta stabile.

George Terry alla chitarra e Yvonne Elliman ai cori sono tra questi ultimi. Yvonne è una vocalist sulla cresta dell’onda per avere interpretato Maddalena in Jesus Christ Superstar; presto Eric se ne invaghisce e i due portano avanti una relazione piuttosto discontinua per disco e tour seguente. Per le registrazioni Clapton suona una Fender Stratocaster personalmente rimaneggiata, che ha ribattezzato Blackie.

A inizio carriera Eric era un cultore della Gibson Les Paul, ma durante il periodo americano aveva acquistato sei Stratocaster per pochi spiccioli. Al ritorno in Gran Bretagna ne aveva regalate tre e con le altre aveva dato vita a Blackie, una sorta di Frankenstein con cui aveva cannibalizzato i pezzi migliori di ogni Fender rimasta.

Per le parti slide – numerose – preferisce una Gibson ES-335, per quelle acustiche una Martin. Il disco è il paradigma del nuovo suono di Clapton, quello che dominerà tutti i suoi successivi dischi; un sound rilassato, più vicino al country americano che al rock inglese. Non mancano strizzate d’occhio al folk, fino a qualche caduta commerciale tra pop e reggae. Certo, per i fan della prima ora, quelli di Mayall e dei Cream, il suono è troppo pacato e levigato. Il mercato, però, in un periodo un po’ confuso per il rock, gli dà ragione.

461 Ocean Boulevard si apre con Motherless Children.
Il pezzo è un classico della tradizione, dal tema caro a Clapton, sempre alla ricerca di figure materne. L’arrangiamento offre già i prodromi del futuro sound, tra riff di chitarra scintillanti ma piuttosto leggeri e la chitarra slide, retaggio dell’amicizia con Duane Allman. Il cantato di Clapton è strascicato e non troppo curato, volutamente, e lo stile ricalca quello del nuovo idolo di Clapton, J.J. Cale.

Give Me Strenght è una ballata blues, anche questa profetica del suono che sarà la cifra del Clapton anni ’80 e ’90; chitarra acustica suonata slide, andamento lento e indolente. E quella sospensione tra malinconia e accenni pop che non sempre i puristi gli perdoneranno. Certo è che sono lontanissimi i furori giovanili del ragazzo che aveva cambiato il modo di intendere la chitarra elettrica.

Willie and the Hand Jive, un classico di Johnny Otis, riporta il discorso musicale in ambito rock’n’roll; il pezzo, dall’andatura in tipico stile Bo Diddley, viene annacquato e dilatato da Clapton. Il suo stile vocale è talmente rilassato da renderlo quasi irriconoscibile, ai limiti dell’indolenza.

A questo punto, con Get Ready e I Shot the Sheriff, si vira decisamente su ritmiche più ruffiane a livello commerciale. Il battito si fa affine al reggae, all’epoca la musica del momento, e la sensazione di rilassatezza inizia quasi a essere molesta, pur tenendo conto che Eric è al momento della registrazione costantemente ubriaco. Get Ready si avvale della bella voce di Yvonne Elliman, ma non riesce a sollevarsi da una certa evanescenza.

I Shot the Sheriff è una cover di un pezzo di Bob Marley.
La versione di Eric Clapton dimostra la sua scarsa lucidità all’epoca; Eric, infatti, la incide poco convinto ed è ben deciso a lasciarla fuori dalla tracklist. Solo la produzione e gli altri musicisti fanno sì che alla fine il brano appaia sull’album; scelto come singolo, sarà un successo portentoso che trascinerà l’intero lavoro.

Inevitabilmente il brano non conserva nulla della carica eversiva della versione originale del grande Bob; da una parte un alto borghese, annoiato e sempre ubriaco – questo era Clapton in quegli anni – dall’altra l’urgenza espressiva e ai limiti del fanatismo di Marley. Eppure, in mano a Slowhand, il pezzo funziona eccome. Nel ’74 Eric non conosce Bob Marley e, anni dopo, il giamaicano dirà di aver apprezzato la cover. Clapton, in modo piuttosto naif, dichiara nella sua autobiografia di non aver capito esattamente di cosa parlasse il brano.

Si volta il vinile e finalmente troviamo il primo vero blues del disco. I Can’t Hold Out è un classico di Elmore James, profeta della chitarra slide; la versione di Clapton è di nuovo anestetizzata, dilatata e rallentata. Tuttavia, la percezione che Eric sia finalmente nella vasca giusta è immediata; l’assolo di slide, per quanto trattato con un po’ di Valium come tutto il disco, offre finalmente il talento chitarristico del genio di Ripley.

Le atmosfere tornano acustiche con un’accoppiata di riuscite ballate, Please Be With Me e Let it Grow. Il primo brano è un riuscito bozzetto country, con tanto di slide e coretti della Elliman; pare quasi di sentire una versione un po’ edulcorata di Townes Van Zandt. Uno smacco per i fan del Clapton Guitar Hero, ma è impossibile dire che la canzone non sia molto riuscita.

Let it Grow è uno degli apici del disco, una bellissima ballata intarsiata dai ricami di chitarra di Clapton e cantata quasi sussurrando.

Tutti notano subito una spiccata somiglianza con Stairway to Heaven; tutti, tranne Slowhand, che se ne accorge solo dopo che il pezzo è già inciso. Nell’autobiografia Eric ammette il debito, trovando la cosa quasi una punizione divina, non avendo mai avuto particolare simpatia per i Led Zeppelin.

Steady Rollin’ Man è il solito tributo all’idolo Robert Johnson; di nuovo un blues strascicato, appena un po’ più dinamico rispetto al resto del disco. La voce di Clapton è leggermente più sforzata e adatta al genere, l’andamento è quasi funkeggiante, ma sempre rilassato. A metà parte un assolo, uno dei pochi senza slide del disco, che nulla concede al virtuosismo. Certo è che anche la forma di Eric all’epoca non fosse delle migliori, e la tecnica probabilmente ne risentiva.

La conclusione è per Mainline Florida, pezzo scritto dal chitarrista George Terry. Si tratta di una blanda cavalcata rock, dominata da un riff leggero e ideale congedo per i live negli stadi americani.

461 Ocean Boulevard è un disco molto importante, più a livello storico che artistico.
È l’album che riconsegna alla musica un grande protagonista allora misteriosamente – ma nemmeno tanto – scomparso dalle scene; è inoltre un lavoro che segna la nuova direzione del sound di Clapton. Piaccia o no, i dischi successivi seguiranno tutti il canovaccio di 461 Ocean Boulevard.

Ovvero, atmosfere rilassate, influenze americane e cover assortite che spesso sovrastano il repertorio originale. I puristi, all’epoca, non sono contenti, ma questo suono farà di Eric Clapton uno dei musicisti di più grande successo della storia.

— Onda Musicale

Tags: Eric Clapton, Steve Winwood, Cream, Yardbirds, John Mayall
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