Nel caos eterogeneo che contraddistingue l’inizio del rock progressivo italiano, uno dei primi gruppi a mettersi in mostra è quello dei Delirium. La band è rimasta nella storia per la hit Jesahel e per la militanza di Ivano Fossati.
Per raccontare la storia dei Delirium, però, bisogna andare indietro di qualche anno, a Genova. È il 1962 quando il batterista de I Satrapi, Giuseppe Polonio, conosce Riccardo Anselmi, un chitarrista. Nascono I Sagittari, un complesso che pur non ottenendo grandi successi, attraversa tutti gli anni Sessanta.
Sempre a Genova, intanto, muove i primi passi Ivano Fossati; nato in una famiglia dove la musica è di casa, Ivano diventa un bravo polistrumentista, pur studiando in modo disordinato. Prima studia pianoforte, poi passa all’organetto; suona la chitarra elettrica e poi si mette a studiare il flauto traverso. Paradossalmente, Fossati detesta la forma canzone, quella per cui diventerà celebre.
Siamo alla fine degli anni Sessanta; i Sagittari si sono stabilizzati in una formazione che conserva il solo Anselmi dei membri originali. Girano l’Italia suonando nelle balere un beat molto commerciale e hanno anche alle spalle qualche incisione. Parallelamente coltivano la passione per una musica più strutturata, ispirata al jazz e al nascente prog britannico.
Fossati, dopo qualche esperienza in complessi beat e coi Gleemen del bravissimo chitarrista Bambi Fossati, di cui non è parente, si guarda attorno. I Sagittari gli offrono la possibilità di entrare in organico e Ivano non se lo fa ripetere. All’epoca è giovanissimo, nemmeno vent’anni. Fossati subentra a Riccardo Anselmi, che non è d’accordo sulla direzione sperimentale che sta affascinando il gruppo.
Il cambiamento dei Sagittari è così giunto a compimento; della formazione originale non è rimasto nessuno e si decide di cambiare anche il nome. Nascono i Delirium.
L’assetto si stabilizza con Fossati che canta – con una voce profonda e impostata molto diversa da quella che proporrà in seguito – e suona chitarra acustica e flauto; Mimmo Di Martino alla chitarra acustica, Marcello Reale al basso, Peppino Di Santo alla batteria ed Ettore Vigo alle tastiere. Di Martino e Di Santo, all’occasione, cantano anche da solisti.
Canto di Osanna, una ballata folk vagamente mistica, è subito un grande successo; i Delirium vincono alcuni concorsi e si apprestano a registrare il primo album con la Fonit.
All’inizio il pezzo forte dell’album dovrebbe essere Jesahel, ma la band decide di tenerlo da parte per il Festival di Sanremo. La scelta risulta adeguata, sia per l’incredibile successo del brano, sia perché risulterebbe fuori contesto nel disco.
Il debutto prende allora il titolo di Dolce Acqua e viene registrato negli studi Fonit di Milano. La musica propone un miscuglio – allora mai sentito in Italia – di folk, post-beat e influenze jazz-rock. I riferimenti sono i soliti grandi complessi britannici; in particolare i Jethro Tull, con Fossati che è degno epigono di Ian Anderson al flauto, ma anche i King Crimson. Altra influenza decisiva è quella dei Traffic di John Barleycorn.
I musicisti sono sempre all’altezza, nonostante qualche eccesso e ingenuità dovuti al furore dell’età; la tecnica è solida. In più, la band funziona come una sorta di collettivo e ogni decisione è frutto di riunioni e discussioni volte a dare spazio a ogni componente. I tempi sono pionieristici e i mezzi pochi, non mancano così gustose trovate tecniche.
L’effetto dei celebri amplificatori Leslie viene ricreato con delle vecchie lavatrici; una sorta di suono da sitar è invece ottenuto con degli anellini di metallo posti sulle corde della chitarra.
La copertina è perfettamente in tema col sentire un po’ hippie e un po’ psichedelico del gruppo. I pezzi portano tutti la firma di Fossati per quanto riguarda i testi; le musiche sono a nome Mario Magenta, che in realtà è un dirigente della Fonit. Magenta non scrive una nota del disco, ma in quel momento nessuno dei Delirium è iscritto alla Siae e si rende necessario l’escamotage.
I brani sono otto, alla fine si decide di non inserire né Jesahel, né il singolo Canto di Osanna; i pezzi, slegati tra loro, formano però una sorta di concept che richiama emozioni o caratteristiche dell’animo umano.
L’apertura è per Preludio (Paura). Introdotta dal flauto di Fossati, la canzone è una romantica ballata cantata a due voci da Peppino Di Santo e Ivano Fossati. L’impostazione risente ancora in parte del beat, ma il suono è già strutturato e richiama le grandi band d’oltremanica. L’arrangiamento è piuttosto scarno e acustico; il finale mette brevemente in evidenza pianoforte e di nuovo il flauto.
Un inizio che chiarisce subito la capacità dei Delirium di trovare melodie che entrano immediatamente nell’orecchio dell’ascoltatore.
Movimento I (Egoismo) si apre in modo molto più mosso, col flauto di Fossati che ricorda i Jethro Tull. La voce scura di Fossati prende brevemente il sopravvento, poi è il pianoforte in versione jazzata a condurre le danze. Un intermezzo corale riporta al tema principale; i cori epici e il flauto portano alla conclusione il pezzo, veri marchi di fabbrica dei primi Delirium.
Si passa all’introduzione pianistica di Movimento II (Dubbio); stavolta a cantare è Mimmo Di Martino. Le atmosfere musicali sono sempre dalle parti di Procol Harum e Traffic. Il testo si mantiene sempre su toni esistenzialisti e mistici e la voce di Di Martino è piacevolmente sofferta e sporca. Una certa ingenuità di fondo non mina l’efficacia dell’insieme. Inusitata la breve coda orchestrale.
Con la successiva To Satchmo, Bird and other unforgettable friends (Dolore) siamo in pieno territorio jazz-rock. La dolente introduzione del piano, doppiata dal flauto, lascia presto spazio a una cavalcata di una sorta di jazz psichedelico. In evidenza sono ancora tastiere e flauto, ma c’è spazio anche per brevi assoli di basso e batteria. L’atmosfera è quella di una rilassata jam session.
Si passa a Sequenza I e II (Ipocrisia-Verità), ancora un brano prevalentemente strumentale. Stavolta entra in scena anche l’organo e le atmosfere sono quasi sudamericane. Notevole il lavoro di Ivano Fossati al flauto traverso.
Johnnie Sayre (II perdono) è uno dei momenti più alti e commoventi del lavoro; la canzone è tratta dalla raccolta di poesie Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters. La stessa fonte che ispirerà nel corso dell’anno il grande Fabrizio De Andrè. La storia è quella di un bambino che perde la vita sotto un treno, dopo aver marinato la scuola, e invoca il perdono del padre. Siamo ancora dalle parti di una specie di beat progressivo; la struttura del pezzo è cioè semplice, ma dilatata in modo allora molto sperimentale. Le percussioni ricreano lo sferragliare del treno, rallentando fino alla conclusione.
Favola o storia del lago di Kriss (Libertà) è un altro dei pezzi forti di questi primi Delirium. La canzone, introdotta da un flauto che sciorina una melodia orientaleggiante, narra la leggenda del lago di Kriss. Il lago – con la voce di Fossati filtrata dal finto Leslie– vorrebbe rompere gli argini per andare alla scoperta del mondo. Ogni strofa introduce un cambio di tonalità, per un risultato che pare quasi una versione più nobile della celebre Jesahel. Un capolavoro forse ingenuo e naif ma che riporta a quell’epoca di grandi ideali in modo molto efficace.
La chiusura è per la titletrack, la bellissima Dolce Acqua, completamente strumentale. La chitarra acustica, il flauto e una melodia semplice ma cristallina bastano ai Delirium per confezionare un piccolo capolavoro. Pian piano arrivano gli altri strumenti, comprese le voci che danno vita solo al coro. Il piano di Ettore Vigo è quantomai efficace e sottolinea con dolcezza la melodia. L’atmosfera bucolica ricorda le cose più folk dei primi Pink Floyd. Alcuni semplici versi di Ivano Fossati arricchiscono questi quasi sei minuti di magia.
Il disco si chiude al momento giusto; ancora oggi l’ascolto di Dolce Acqua è un’esperienza a metà tra il nostalgico e ingenuo ricordo di un’epoca che non esiste più e un qualcosa di quasi mistico. Sicuramente rilassante.
In quasi tutte le successive ristampe viene aggiunta Jesahel, croce e delizia dei Delirium. Il brano viene cantato al Festival di Sanremo del 1972; i Delirium si presentano in perfetti abiti hippie, accompagnati da un’imponente stuolo di amici che fanno da coro e cantano; tra questi anche un giovane Mario Lavezzi. L’effetto sull’imbolsito pubblico festivaliero è straniante; se il movimento hippie è ormai al tramonto, il pubblico mainstream a malapena ha fatto in tempo a sentirne parlare, spesso in toni folkloristici.
I Delirium arrivano allegramente ultimi nella competizione, ma il brano riscuote un successo senza pari; in breve diventa un tormentone. La fama non fa però bene ai Delirium, come spesso capita. Fossati abbandona quasi subito, deluso dalla volontà della band di cercare altri successi facili; inizierà una carriera solista che lo vedrà diventare uno dei grandi nomi della canzone d’autore.
I Delirium, dal canto loro, lo sostituiscono con l’inglese Martin Grice, degno epigono di Fossati e bravo anche al sax. Con la formazione rinnovata danno vita a Lo Scemo e il Villaggio, album che rappresenta un passo avanti in senso jazz-rock.