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La Voce del Padrone, l’insuperabile capolavoro pop di Franco Battiato

La voce del padrone di Franco Battiato

La voce del Padrone di Franco Battiato è stato il primo disco italiano a superare il milione di copie vendute. Basterebbe questo dato per dare un’idea dell’importanza dell’album; ma La Voce del Padrone è molto di più che un semplice best seller.

Per raccontare la storia de La Voce del Padrone bisogna partire dagli anni ’70, quelli del Battiato più sperimentale. Dopo alcuni dischi ascrivibili in tutto e per tutto al movimento progressivo, Battiato si sposta ancora più all’avanguardia. I suoi riferimenti sono nella musica contemporanea, John Cage e Stockhausen su tutti.

Alla fine del decennio, però, la situazione cambia sia nel panorama generale della musica, che in quello particolare di Battiato. La grande evoluzione in senso progressivo è auto-collassata sotto il peso delle sue stesse ambizioni; l’ondata punk ha riportato la semplicità e l’approccio più selvaggio alla ribalta del rock.

La discomusic, con le sue strutture semplici e ballabili, la fa da padrona in classifica. In questo scenario, in cui la breve stagione del punk lascia spazio alla new wave, Battiato sembra un corpo estraneo. E invece, le collaborazioni con Giusto Pio e con Alfredo Cohen gli fanno tornare la voglia di dedicarsi alla forma canzone.

Il primo risultato concreto è L’Era del Cinghiale Bianco. Ora che abbiamo conosciuto l’intera parabola del Maestro siciliano e che la commistione tra vari generi, tra alto e basso, è roba di tutti i giorni, è difficile valutare la portata innovativa del disco. Per la prima volta una struttura smaccatamente pop ospita tante influenze, una più nobile dell’altra.

La cultura orientale e araba, di cui Franco Battiato è già allora un grande cultore; la filosofia, che affiora nei testi più volte. Ma anche il pensiero di Guenon e di Georges Ivanovič Gurdjieff; il tutto filtrato attraverso una sensibilità nuova ma completamente pop e le decine di citazioni più o meno colte.

Battiato si muove a livello di composizione cercando le liriche più suggestive e musicali, tralasciando il senso immediato delle parole. Ne escono fuori dei taglia e cuci, dei nonsense che si muovono su infiniti piani di lettura.

“Credo, al contrario di quelli che non hanno capito niente dei miei testi e li giudicano una accozzaglia di parole in libertà, che in essi ci sia sempre qualcosa dietro, qualcosa di più profondo. Quando si intende adattare un testo alla musica si scopre che non è sempre possibile. Finché non si fa ricorso a quel genere di frasi che hanno solo una funzione sonora. Se si prova allora ad ascoltare e non a leggere, perché il testo di una canzone non va mai letto ma ascoltato, diventa chiaro il senso di quella parola, il perché di quella e non di un’altra. Per capire bisogna ascoltare, serve animo sgombro: abbandonarsi, immergersi. E chi pretende di sapere già rimane sordo.”

L’Era del Cinghiale Bianco è una vera rivoluzione, ma l’accoglienza del pubblico è tiepida. Sordo come sempre alle convenienze del momento, Battiato insiste sulla sua strada. Patriots del 1980 va meglio e contiene già alcuni futuri classici del Maestro.

Ma la vera consacrazione del nuovo Franco Battiato è La Voce del Padrone. Il disco è la summa perfetta della nuova canzone secondo l’artista siciliano; un miscuglio imprevedibile di pop e filosofia, di citazioni da canzonetta anni ’60 fino a Omero. Il tutto in un album breve, di una compattezza che ha dell’incredibile e molto più organico dei precedenti. E – cosa da non sottovalutare – in una scintillante veste pop, addirittura ballabile.

La Voce del Padrone viene registrato nel giugno del 1981 negli studi milanesi di Alberto Radius, chitarrista della Formula 3 e vecchio compagno di scorribande prog. Il titolo è emblematico del citazionismo a più piani di lettura tipico di Battiato; se il riferimento letterale è all’etichetta discografica pioniera, altri sono in un’opera di Stanislaw Lem (l’autore di Solaris) e nella filosofia di Gurdjieff.

“Il vero cambiamento della mia via, il più grande, lo debbo alla scoperta di Gurdjieff. Da solo con un’esperienza da autodidatta avevo scoperto quella che in Occidente, si chiama meditazione trascendentale, ma nel pensiero di Gurdjieff vidi disegnato perfettamente un sistema che già avevo intuito e frequentato. Esistono tante vie, esiste Santa Teresa e San Francesco; quella di Gurdjieff mi era molto congeniale. Una specie di sufismo applicato all’Occidente, all’interno di una società consumistica.”

La Voce del Padrone si apre con Summer on a Solitary Beach, ed è subito un avvio col botto. Il pezzo entrerà tra i classici dell’artista, utilizzata più o meno a proposito. La spiaggia a cui allude Battiato è essenzialmente metafisica, anche se le liriche richiamano anche il tipico effetto nostalgia della sua giovinezza. Il ritmo è sostenuto e porta al celebre ritornello; la voce particolare di Battiato si staglia solo su un bordone di sintetizzatore e qualche nota di pianoforte. L’atmosfera si fa suggestiva e rallentata. L’espediente era già stato provato con Il Vento Caldo dell’Estate di Alice, incisa l’anno prima.
Uno dei capolavori essenziali di Franco Battiato.

Il pezzo successivo fa ancora meglio. Bandiera Bianca è uno dei brani assurti a cult già all’epoca; di nuovo su una ritmica quasi ballabile e pop, Battiato costruisce un pastiche pop che attacca politica, costume, capitalismo, terrorismo e contiene infinite citazioni.
C’è l’attacco alla politica (quei programmi demenziali con tribune elettorali), quello al consumismo (pronipoti di sua maestà il denaro) e l’auto-parodia (c’è chi si mette degli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero).

Numerose le citazioni, dal pop di Alan Sorrenti (Siamo figli delle stelle), anche lui transfuga dal prog al pop, alla classica di Beethoven e Vivaldi; da Frank Sinatra si passa ai Minima Moralia del filosofo Adorno. Lo stesso titolo Bandiera Bianca, oltre che simbolo di resa al decadimento culturale, è una citazione di Arnaldo Fusinato.

Gli Uccelli è un passaggio più classico e riflessivo ma non meno importante. Il brano è precursore del Battiato raffinato e poetico che contraddistinguerà gli album successivi. Il testo è una vera lode verso l’arte del volo degli uccelli; quasi a voler rimarcare la superiorità della natura rispetto all’ingegno umano. L’arrangiamento è raffinato nella sua semplicità, la melodia è la quintessenza della misteriosa capacità di Battiato; quella di trovare ganci melodici assolutamente pop, ma al tempo stesso raffinati e capaci di non stancare mai.

L’album è molto breve e compatto: siamo già al lato B.
La seconda facciata si apre con Cuccurucucù, altro pezza da novanta. La base di partenza è Cucurrucucú paloma di Tomás Méndez, ma anche qui la mole di citazioni è quasi infinita. Si passa dal Proemio dell’Illiade a Nicola Di Bari, da Milva a Bob Dylan, da Mina ai Beatles. Il ritmo è di nuovo sostenuto e sottilmente elettronico, la nostalgia affiora in tutte le liriche. Ma è di nuovo il particolare taglia e cuci utilizzato da Battiato nel confezionare il testo a colpire.

“Una ragazza di quindici anni mi ha scritto dicendo che non le frega niente di quello che dico, che comunque le piace da pazzi. Per me questo è il massimo, perché non voglio dire niente, oppure tutto.”

Il continuo alternarsi di alto e basso, colto e popolare è quasi straniante ma incredibilmente efficace. La melodia è di nuovo un misterioso miracolo, di una dolcezza inaudita ma mai stucchevole. A sottolineare il tutto i preziosi vocalizzi di Giuni Russo, artista spesso dimenticata ma dal talento cristallino.

Segnali di Vita permette di tirare un po’ il fiato, tra tale vertiginosa giostra di capolavori. Eppure, siamo di fronte a un pezzo di una modernità quasi incredibile; un brano del genere potrebbe uscire oggi, magari nel canzoniere dei Baustelle, e tutti griderebbero ancora al capolavoro. Il testo va a cercare segnali di vita nelle piccole cose di tutti i giorni, contrapposti alle misteriose meccaniche celesti; l’arrangiamento è piacevolmente intarsiato dai ricami di chitarra del grande Radius.

Mancano solo due brani, lo spazio di altri due capolavori.
Centro di Gravità Permanente non ha bisogno di presentazioni; è un ennesimo cavallo di battaglia, denso della tecnica compositiva di Battiato che procede per frasi scollegate tra loro ma di sicuro effetto. Musicalmente siamo ancora dalle parti di una new wave spruzzata di elettronica, il ritmo è ballabile e il ritornello si apre con una melodia sospesa nel tempo. Il centro di gravità del titolo allude al sé interiore e al suo equilibrio, ed è ancora debitore agli insegnamenti di Georges Gurdjieff.
Di fronte a un ipotetico e improbabile compito di scegliere un pezzo che rappresenti l’intera arte di Battiato, forse la scelta sarebbe per Centro di Gravità Permanente.

La Voce del Padrone si chiude con Sentimiento Nuevo.
Il testo è un’ode inusuale per il siciliano, dedicata all’amore fisico. Di nuovo infarcito di citazioni classiche, vanta una struttura musicale e una melodia che evocano quasi la discomusic. Di nuovo siamo davanti a un effetto peculiare, in cui musica pop, testi colti e una voce inimitabile convivono senza stridere in nessun modo.

L’album è finito; appena trentuno minuti – poco più di mezz’ora – che consegnano Franco Battiato alla storia della musica. Le influenze su tutto il successivo panorama pop e d’autore sono incalcolabile. Al suo livello, in Italia, si ergono forse solo De Andrè, De Gregori e a volte Fossati e Guccini; quello che però differenzia Franco Battiato è il fatto di essere al tempo stesso troppo diverso per avere eredi, ma anche quello che ha più influenzato la canzone d’autore venuta dopo.

La Voce del Padrone merita sicuramente di essere inserito tra i dieci dischi italiani più importanti della storia.

— Onda Musicale

Tags: Franco Battiato, Prog Rock
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