L’Inghilterra degli anni Sessanta era la Mecca del rock e i suoi profeti divennero in breve tempo i chitarristi. I tre più grandi, quelli idolatrati da subito, erano Eric Clapton, Jimmy Page e un giovane di Sutton, più defilato: Jeff Beck.
Eric Clapton era God per i giovani londinesi; carattere bizzoso e introverso, tocco sopraffino con la Gibson e incline agli eccessi lontano dal palco. Jimmy Page era un vero professionista della chitarra, turnista richiestissimo, tecnico e furbo, con una passione malcelata per l’esoterismo. Jeff Beck era diverso: si era costruito da solo la prima strumentazione e pareva disinteressato alle dinamiche commerciali.
Dopo una sommessa gavetta con band estemporanee come i Tridents, per Jeff la grande occasione arriva nel 1965; è un’occasione che lo lega subito agli altri due vertici del triangolo della chitarra elettrica. Beck viene infatti scelto per sostituire Eric Clapton negli Yardbirds. La band ha appena scalato le classifiche con For Your Love, ma Eric ha preferito legarsi a John Mayall, per seguire il verbo del puro blues.
Jeff ha un background diverso; ama il blues, certo, ma anche il rock’n’roll di Scott Moore e Cliff Gallup e il country di James Burton. Il suo stile – rispetto a Slowhand – è più pirotecnico, i suoi assoli sono brevi e secchi. Inoltre, Jeff è meno ligio – fanatico, se volete – verso il purismo blues; anche l’approccio allo strumento è più sperimentale, con grande utilizzo della leva del vibrato.
Negli Yardbirds Jeff Beck incide presto il suo marchio, ma fin da subito deve vedersela anche con Jimmy Page; il chitarrista è fortemente caldeggiato da Keith Relf, voce della band. All’inizio Jimmy, che forse non si sente ancora pronto per la ribalta, lascia spazio a Beck e ripiega sul basso. Tuttavia, i dissapori emergono presto: ogni occasione è buona per litigi e contrasti.
Una gustosa fotografia di questa formazione si può trovare in Blow Up, il classico di Michelangelo Antonioni; verso la fine c’è una scena in cui il protagonista della pellicola si ritrova in uno dei tanti club londinesi dell’epoca, nel bel mezzo di un live degli Yardbirds. Il compassato Beck è costretto dalle esigenze del copione a distruggere la sua chitarra, come era uso fare Pete Townshend degli Who.
Nel 1967, durante un tour americano, mentre sono in Kansas, Jeff Beck matura la decisione di lasciare gli Yardbirds. Sono anni tumultuosi e le situazioni si evolvono in fretta: Jeff vuole una band tutta sua dove sperimentare in pace.
Non posso negare che la rivalità interna di Jimmy Page abbia influito sulla scelta. Ma alla base di tutto ci fu il desiderio di sperimentare nuove direzioni musicali. Nessuno tentò di farmi cambiare idea, e probabilmente non ci sarebbero riusciti. Così mi ritrovai libero di fare quello che avevo sempre sognato: suonare senza costrizioni commerciali.”
Jeff Beck
Beck mette presto su una band coi fiocchi. Al basso recluta Ron Wood, futura chitarra dei Faces e degli Stones; alla batteria prima Aynsley Dunbar e poi Mickey Waller. In studio, poi, spesso si aggiungono due turnisti di lusso: Jimmy Page alla chitarra ritmica e il polistrumentista John Paul Jones. Metà dei Led Zeppelin.
Jeff Beck non ha velleità di cantante, ma anche lì il problema viene risolto brillantemente.
“Incontrai Rod Stewart una sera per caso al Cromwellian, durante una festa a base di grandi tavole imbandite e botti piene di birra e vino. Lui non mi aveva mai visto e credo che non si ricordi molto bene il nostro primo incontro, visto che era completamente ubriaco; comunque gli chiesi se fosse entrato a far parte ufficialmente degli Steampacket, con cui aveva appena suonato. Lui disse di no e gli proposi di formare una band. ‘Telefonami domani e mollo gli Steampacket per sempre’ mi disse prima di scappare in bagno.”
La band è così formata, ma i primi tempi sono difficili per via del produttore Mickie Most; l’uomo vorrebbe che fosse Beck a cantare, ed è così per i primi sciagurati singoli. Poi anche Most si convince e le registrazioni di Truth possono avere inizio.
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Il disco viene registrato in appena cinque giorni, in un clima di improvvisazione quasi totale. La formazione è leggendaria; oltre a Stewart e Wood, si aggiungono Jones e Page come session man e – per alcuni brani – Keith Moon, che allora pare in procinto di lasciare gli Who. Beck – per sua ammissione – non è un buon compositore, e la tracklist è costituita quasi esclusivamente da cover.
Il disco si apre subito con un gancio verso il recente passato: Shapes of Things è infatti la cover di un pezzo beat degli Yardbirds. Si tratta di una versione rallentata e molto più pesante dell’originale. Sono passati almeno un paio d’anni, ma tra le due versioni sembra passato un secolo; l’interpretazione di Stewart è sofferta, al limite del soul, l’assolo di Jeff è lungo e al fulmicotone. Il classico beat diventa una lenta cavalcata di hard blues.
Let Me Love You Baby è uno dei tre brani inediti, a firma del misterioso Jeffrey Rod, dietro cui si celano forse Stewart e Beck. Il pezzo è un roccioso rock-blues con le voci di Rod e Jeff che si alternano. Magnifico l’unisono voce-chitarra, con Beck che dimostra di non avere nulla da invidiare a Jimi Hendrix. Il lavoro alla chitarra è importante e votato al più classico blues, inframezzato da potenti riff. Il finale vede un botta e risposta tra voce e chitarra che anticipa quello che diverrà un cliché dell’hard rock, specie coi Deep Purple.
Delle lontane cornamuse introducono la successiva Morning Dew, cover di Tim Rose, allora di gran voga. Il brano è reso in modo lento ed epico, con una grande prestazione vocale di Rod Stewart e il grande lavoro di Beck col wah-wah. La resa è molto vicina a certi pezzi dei Cream del rivale Eric Clapton.
Le cornamuse scemano e si arriva al pezzo più celebre del lavoro: You Shook Me.
Non è altro che una cover del celebre blues di Willie Dixon, in una versione durissima, molto innovativa per l’epoca; particolare è l’uso dell’Hammond di John Paul Jones, mentre il piano di Nicky Hopkins puntella il tutto in perfetto stile blues. La chitarra di Beck, rocciosa, suona all’unisono col roco urlo di Stewart, per poi librarsi pindaricamente nelle parti soliste.
La celebrità del pezzo, però, è dovuta al fatto che solo pochi mesi dopo la stessa canzone sarà un cavallo di battaglia del primo lavoro dei Led Zeppelin. La cover di Beck è incendiaria, ma molto breve e – in un certo senso – misurata. Nelle mani di Page e Plant, lo stesso materiale diventa pretesto per una cavalcata molto più sopra le righe, lunghissima e micidiale. Che Page possa essersi ispirato a Beck, è evidente; il chitarrista è presente alle registrazioni, Jones addirittura suona nello stesso pezzo.
“Ero a New York quando sentii per la prima volta il demo del brano inciso dal vecchio Jimmy; il mio cuore quasi smise di battere, lo guardai e cominciai a piangere di rabbia. Pensai: ‘C’è Truth che passa su tutti i giradischi e questo tipo tira fuori un’altra versione’. Poi realizzai che era vero e pensai: ‘Ecco, ci risiamo…’ Molta gente con cui parlo continua a sostenere che il primo album dei Led Zeppelin sia il migliore che abbiano fatto e in pratica suona come quello del Jeff Beck Group.”
Jeff Beck
Le parole di Beck sono ovviamente frutto delle emozioni personali; il suono dei Led Zeppelin è sicuramente una spanna sopra quello della sua band, per potenza e portata innovativa. Tuttavia, è sicuro che il Jeff Beck Group avrebbe meritato più fortuna commerciale.
Il disco va avanti con Ol’ Man River e Greensleeves, due brani che permettono di tirare un po’ il fiato ma forse inficiano un po’ la compattezza dell’album. Si riprende a tutta forza col granitico rock blues di Rock My Plimsoul. Il brano altro non è che una cover di Rock Me Baby di B.B. King, con la chitarra di Jeff Beck particolarmente a suo agio. Siamo ancora lontani dalle divagazioni fusion e jazz che caratterizzeranno il Beck degli anni a venire; qui siamo in presenza di un maestoso chitarrista blues, la cui tecnica supera probabilmente quella di Clapton e Page, pur essendo forse meno appariscente. Blues da manuale.
Beck’s Bolero è uno strumentale che presta il fianco di nuovo a qualche scaramuccia coi Led Zeppelin. Il brano, registrato prima delle session di Truth, è a firma di Beck e Page e vede la partecipazione di Jones al basso, Page alla dodici corde e Moon alla batteria. Splendida la prestazione di Beck, che omaggia il classico Bolero incrociandolo con una parte di roccioso rock ai limiti dell’heavy metal. Nel primo album dei Led Zeppelin, in How Many More Times, la sezione strumentale ricalca Beck’s Bolero in modo quasi pedissequo. Potrebbe essere considerato un tributo all’amico-rivale. Peccato che il nome di Jeff Beck non venga citato nei crediti.
La chiusura di Truth è ancora all’insegna del blues. Blues De Luxe è un lento maestoso e cantato benissimo da Rod Stewart. Anche questo brano ricalca un classico di B.B. King, Gambler’s Blues. Gli appalusi sovraincisi ricreano una fumosa atmosfera da club, e così lo splendido piano di Hopkins. La chitarra di Beck sfoggia un suono più sottile, perfettamente in tema col blues, per poi ritagliarsi uno splendido assolo finale. Sembra di sentire un vero bluesman americano, dalle parti del selvaggio Buddy Guy: perfetto.
Manca ancora un brano, I Ain’t Superstitious di Howlin’ Wolf.
Siamo ancora davanti a un blues trattato alla Beck, con massicce dosi di chitarra slide e wah-wah. Ma attenzione, è pur sempre blues ortodosso che paga il debito coi grandi maestri neri per spiccare il volo per qualcosa che all’epoca non è ancora decodificato.
Si conclude così Truth, un lavoro che al tempo vende bene ma viene presto soverchiato dall’esordio dei Led Zeppelin. Page e soci portano più avanti il discorso del Jeff Beck Group, facendo invecchiare precocemente tutto il rock blues coevo. Merito di una potenza di fuoco mai vista – Bonzo alla batteria su tutti – e di una sfrontatezza senza pari. Jeff Beck appare forse troppo timido nel contenere la sua furente chitarra nei tempi consoni all’epoca; i Led Zeppelin dilateranno la durata dei brani e alzeranno ancora il volume degli amplificatori.
Tuttavia, al netto dell’inevitabile confronto, Truth è un disco a suo modo storico, che ha ben superato la soglia dei cinquant’anni. Di lì a poco, dopo il secondo disco, Beck si ritrova senza band; Stewart e Wood formano i Faces, Jones e Page i Led Zeppelin e Moon decide di restare con gli Who. Il buon Jeff non solo perde tutti i pezzi del gruppo, ma incorre anche in un grave incidente, preludio a una carriera discontinua commercialmente ma di culto a livello artistico.