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Jon Lord, il profeta dell’organo Hammond, gli anni ’70 e i Deep Purple

Jon Lord negli anni Settanta
La Gran Bretagna, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, fu la patria dei grandi tastieristi rock. Artisti istrionici come Keith Emerson o Rick Wakeman incantavano migliaia di fan adoranti, dietro muri di sintetizzatori. Uno dei più grandi, però, continuava ostinatamente a suonare solo il buon vecchio organo Hammond. Il suo nome era Jon Lord.

Jon Lord nasce a Leicester, la cittadina famosa ora per le vicende legate al calcio, il 9 giugno del 1941. I genitori sono Miriam Hudson e Reginald Hudson; il padre, dal nome ancora più altisonante di Jon, è un sassofonista dilettante che gli instilla da subito la passione per la musica.

Frederick Allt, il suo primo insegnante di pianoforte, lo avvia da ragazzino alla musica classica. Le fughe di Bach e la tradizione popolare inglese di Edward Ellgar sono le sue prime influenze. Il periodo è però quello in cui si vanno affermando musiche nuove; il rock’n’roll e il blues revival di là dall’oceano; lo skiffle prima, poi il beat e il british blues nella terra d’Albione.

Lord, trasferitosi a Londra e indeciso tra musica e recitazione, assorbe tutti gli stimoli. Si laurea al Drama Centre di Londra e per mantenersi suona il piano jazz con alcune formazioni. La scoperta di Jimmy Smith e dell’organo Hammond è per Jon il tipico colpo di fulmine. Mentre mette a punto la sua rivoluzionaria ricetta che mescola classica e rock-blues, Jon suona con una messe di band e artisti.

Come session man, per esempio, registra il primo album dei Kinks; con lui, in studio, un turnista che farà strada con la chitarra: Jimmy Page. Tra le sue band ricordiamo: The Artwoods, la Red Bludd’s Bluesicians e i St Valentines Day Massacre. Qualche tempo dopo forma una band dalla vita brevissima, i Santa Barbara Machine Head. Curiosamente, il complesso porta il nome di uno degli album più importanti dei Deep Purple.

In questo periodo, tuttavia, l’episodio chiave è la formazione dell’ennesima band, i The Flowerpot Men. Il nuovo progetto ha il merito di fa incontrare Lord e il bassista Nick Simper, nonché il manager Tony Edwards; da queste conoscenze scaturisce la collaborazione col chitarrista Ritchie Blackmore. Sono appena nati i Deep Purple.

Con l’aggiunta di Rod Evans alla voce e di Ian Paice alla batteria, la prima formazione dei Deep Purple è pronta per il debutto. Per i primi dischi, fino all’arrivo di Ian Gillan e Roger Glover, la band fatica a trovare uno stile ben definito. Il suono è in parte debitore al blando prog psichedelico dei Vanilla Fudge e le composizioni originali appaiono ancora poco centrate. Ciononostante, il debutto con Shades of Deep Purple è un buon successo in America.

Mentre in Gran Bretagna va affermandosi il prog, con largo uso di Moog e sintetizzatori, i Deep Purple non si accodano al movimento. Il loro sound spettacolare ma tutto sommato ancora semplice, più legato alla psichedelia e al beat che non al progressive, fa proseliti negli Usa. Va detto che il prog è un movimento essenzialmente europeo, troppo cerebrale e culturale per far breccia nei gusti più semplici e forse grossolani degli americani.

I primi segni del suono futuro di Lord e degli stessi Deep Purple però ci sono già.
Lo strumentale And The Address che apre il lavoro offre un ampio saggio delle idee rivoluzionarie di Lord; lunghe cavalcate e improvvisi riff che si ripetono e – soprattutto – il suono potente e quasi chitarristico del suo organo. Ma anche in un singolo orecchiabile come Hush o nella rilettura di Help dei Beatles, l’Hammond di Jon è sempre in primo piano.

Mandrake Root è un pezzo prodromico dei Deep Purple futuri, quelli votati all’hard rock, tanto che sarò spesso proposto anche dalla MKII. Emergono inoltre alcuni marchi di fabbrica, come i lunghi duelli tra organo e chitarra, oltre al tour de force tastieristico di Hey Joe.

“C’è un modo di suonare un Hammond diverso. Molte persone commettono l’errore di pensare che si possa suonare un Hammond con una tecnica al pianoforte. Beh, puoi farlo, ma sembra che tu stia suonando un Hammond con una tecnica di pianoforte.”

Jon Lord

Le parole di Jon Lord fanno ben capire il suo approccio allo strumento. Emerson e Wakeman spendono parole di grande stima e apprezzamento verso la sua tecnica. Molti lo ammirano e pochi cercano di imitarlo; quelli che lo fanno, non ci riescono. L’uso dell’Hammond da parte di Jon Lord è nuovo; segue solo in parte la via tracciata dal jazz di Jimmy Smith e dalla coeva psichedelia di Ray Manzarek nei Doors. Allo stesso tempo, pur fondendo classica e scale blues, Lord si discosta totalmente dall’approccio prog canonico.

Il suono di Lord è pesante, più del blues ed equipara le parti d’organo a quelle di chitarra. Il trucco – in fondo – è semplice; Jon inizia a sperimentare collegando l’Hammond agli amplificatori Marshall per la chitarra elettrica. Il musicista sta cercando di ottenere un volume pari a quello di Blackmore, il risultato è portentoso. L’Hammond suona cupo, quasi ringhiante, le sue parti soliste sono in grado di rivaleggiare con quelle degli eroi della sei corde.

È un periodo in cui Jon Lord pare quasi prendere il sopravvento all’interno dei Deep Purple. La sua passione per la musica classica contagia i compagni di complesso, tanto che sempre più tracce se ne trovano tra i solchi dei primi dischi. Pian piano prende corpo l’idea che da un po’ gli gira per la testa, un disco registrato da pari a pari con un’orchestra.

Mentre, alla ricerca di un sound più potente, nasce la MKII con Gillan e Glover, il progetto acquista forma. Concerto for Group and Orchestra viene inciso dal vivo il 20 dicembre del 1969. Nel disco i Deep Purple suonano con la Royal Philarmonic Orchestra condotta da Malcolm Arnold; sulle partiture scritte da Jon Lord, orchestra classica e rock si fondono, seppur tra alti e bassi.

Oggi l’idea fa sorridere; decine di gruppi, anche metal, hanno dato vita a operazioni simili. All’epoca, però, l’idea di Lord è del tutto nuova e seminale, tanto da dare frutti ancora oggi, dopo più di cinquant’anni. Il risultato convince a metà, anche se il disco è il primo, timido successo dei Deep Purple in patria. I vari movimenti sono forse un po’ scollegati tra loro e orchestra e band non si fondono sempre a dovere; a tratti pare quasi che le due entità suonino per conto loro.

L’importanza storica del progetto è però fondamentale, anche se forse ancora oggi non se ne valuta la giusta portata.

In ogni caso, anche se il progetto con la filarmonica è forse il punto più alto del predominio di Lord all’interno dei Deep Purple, per la band è solo l’inizio della parte più luminosa del loro percorso. La MKII funziona già al primo disco in studio – il decisivo In Rock – come un meccanismo ben oliato. A Lord e Blackmore spettano i fuochi d’artificio strumentali, mentre Gillan è il frontman carismatico che mancava. Paice e Glover completano con una delle sezioni ritmiche più potenti sulla scena.

Nascono i Deep Purple votati all’hard rock, precursori di gran parte dei futuri cliché metal. Jon Lord si ritaglia un ruolo di grande rilievo: In Rock vive dei suoi duelli con la chitarra di Blackmore. Child in Time, poi, è da subito uno dei pezzi forti del complesso e il riff porta la firma proprio dell’organista; va detto che la sequenza di note è ispirata smaccatamente a Bombay Calling degli It’s A Beautiful Day. Il pezzo sarà il cavallo di battaglia di Gillan; Ian vi è talmente attaccato da chiedere – dopo la sua uscita dal gruppo – che non venga più eseguito. E così sarà.

Con Fireball, Machine Head e – soprattutto – l’infuocato live di Made in Japan, si consumano gli anni migliori di Jon Lord. I suoi duelli rusticani con la chitarra del sodale Blackmore, le sue cavalcate divise tra l’amore per Bach e quello per il blues, non saranno mai più così ispirati. La nascita della MKIII, che sembra preludere a un ritorno al comando di Blackmore e Lord, sovverte invece gli equilibri.

Burn e Stormbringer sono buoni album, anche a livello di vendite, eppure la magia si è rovinata. Specie per Jon Lord. I suoi interventi – ora anche al sintetizzatore – si fanno sempre più misurati; e la misura non è una dote che troppo si addice all’hard rock. Pian piano le parti di Lord vanno scemando, sempre più evanescenti, così come la coesione della band.

Quando lui e Ritchie Blackmore erano i due capitani del vascello Deep Purple, l’armonia regnava sovrana. Con l’arrivo di Gillan e, forse, col grande successo, tutto cambia. Lord ha un carattere pacato, il suo grande amore non è per la fama, solo per la musica. Blackmore si fa sempre più bizzoso, nessuna direzione presa pare essere per lui quella giusta; i suoi scontri, con Gillan prima, con Coverdale poi e infine con tutti, segnano la fine dei primi Deep Purple.

La morte di Tommy Bolin segna l’epilogo della prima parte della storia dei Deep Purple. Jon Lord è all’epoca un ricchissimo giovane che si divide tra le tastiere, il lusso e mille progetti.

Il suo look tipicamente anni ’70 – baffoni, occhiali da sole e lunghi capelli – si va trasformando come la sua musica. Collabora con i grandi, da David Gilmour a Maggie Bell e Ozzy Osbourne; fonda gli effimeri Paice Ashton Lord e suona in sei album dei Whitesnake.

Quando i Deep Purple si decidono per una milionaria reunion, Jon Lord non si fa certo indietro. Sono gli anni ’80, l’hard rock è diventato patinato e la magia è difficile da ricreare. Tuttavia, anche questa seconda parte è ricca di successi, specie dal vivo, con altri sei dischi e tante liti tra Gillan e Blackmore. Lord abbandona definitivamente i Deep Purple – l’amore di una vita – nel 2002.

Forse è stanco e vuole passare una vecchiaia tranquilla, tra collaborazioni classiche e qualche uscita solista. Purtroppo, sarà così solo in parte; una grave malattia lo colpisce nel 2011 e lo porta via l’anno dopo, quando Jon Lord ha settantuno anni.

La sua eredità è allo stesso tempo enorme e non riscossa; non è entrato tra i miti del progressive, mastodontici e un po’ kitsch, e nel metal in pochi hanno provato a imitarlo. Jon Lord rimane un esempio più unico che raro di tastierista in grado di duellare ad armi pari col chitarrista in una band di hard rock.
Negli anni ’70 non era poco, proprio per niente.

— Onda Musicale

Tags: Deep Purple, Ian Gillan, Ritchie Blackmore, Ian Paice, Jon Lord
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