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Lucio Dalla il cantante e Roberto Roversi il libraio: anime bolognesi

La maggior parte delle persone, se interrogata su Lucio Dalla, tende dare questa risposta: “ah sì Lucio Dalla ha iniziato con 4 Marzo 1943 e Piazza Grande. Poi qualche anno dopo ha fatto Com’è profondo il mare e il disco quello con l’anno che verrà e poi da lì è diventato famoso”.

Molti, troppi, ignorano parti della sua carriera sconosciute, sicuramente difficili, ma fondamentali per la sua carriera artistica. E una di queste parti è certamente la trilogia di dischi usciti tra il 1973 ed il 1976, la “trilogia politica” se così la possiamo definire. Una trilogia basata sui testi di un curioso e coltissimo personaggio bolognese, una figura atipica di libraio, giornalista e partigiano che portava il nome di Roberto Roversi.

Roversi è il diretto responsabile della transizione tra il Dalla “favolistico” che si affidava ai testi di Bardotti, Baldazzi o di Paola Pallottino e il Dalla cantautore che finalmente ha deciso di mettere cuore, sangue ed anima dentro ai suoi testi.

Dischi tra il 1973 e il 1976

Se non lo si ascolta è davvero difficile spiegare a parole il Dalla nascosto dentro a quei dischi. E’ un Dalla sperimentale, politicizzato partendo dal personale (per parafrasare uno slogano allora molto in voga), metaforico, qualche volta astruso ai limite dell’ermetico (etichetta che all’epoca fu appiccicata al suo compagno fraterno De Gregori. Coincidenze?) ma estremamente viscerale.

“Il giorno aveva cinque teste” (1973), “Anidride solforosa” (1975) ed “Automobili” (1976) sono come tre quadri di un pittore famoso rovinati dal tempo e dalla muffa. Se si ha pazienza e si riesce a ripulirli pezzo per pezzo e ad osservarli con calma usando l’ascolto, ci si accorge di avere in casa tre quadri espressionisti che all’inizio ci sembravano delle croste.

Come ebbe a dire il suo amico fraterno Gianfranco Baldazzi nella biografia “Dalla” (1990), le musiche di questi album sono un’ardita contaminazione tra “Pink Floyd, McCartney, Bach, Gino Paoli e Puccini.”. Io aggiungerei che sono suonate da strumentisti molto preparati che non hanno paura di lanciarsi in improvvisazioni che hanno forme quasi jazzistiche (pur rimanendo meravigliosamente pop) e che, dopo aver messo inizialmente a dura prova l’ascoltatore abituato a “Piazza grande” o a “4/3/1943”, lo portano in un mare di stupore sonoro e letterario, fatto di storie e di metafore impalpabili quanto profonde.

Album pieni di contraddizioni

Nei pezzi ci troviamo dentro le contraddizioni, le spinte ideali, gli enigmi irrisolti della parte più nascosta dell’Italia del dopoguerra.C’è la terribile condizione delle carceri minorili che non fanno redenzione ma accrescono il curriculum di un giovane criminale (“Mela da scarto”);il terribile caso di cronaca che coinvolge una bambina vittima di un serial killer negli USA (“Carmen Colon”, testo che in quegli anni senza internet mostra anche la cultura giornalistica di Roversi). Ma è ben narrata anche la condizione dei “terroni”, gli immigrati clandestini dell’ epoca che lavoravano per rendere la vita facile ai signori del nord (“Un auto targata TO”);la favola con una morale quasi amorale ( la bellissima “Il Coyote”).

Ma troviamo anche la lotta ante litteram contro l’inquinamento (“Anidride solforosa”, un pezzo quasi operistico); l’epopea degli assi automobilistici descritta in “Automobili” (senza dimenticare “Intervista con l’avvocato” per un Agnelli allora presidente della confindustria messo davanti al terribile futuro che attendeva l’automobile, profezia poi smentita dagli anni 80). Toccanti e profonde sono le storie minori di operai e braccianti (“Passato, presente”, “L’operaio Gerolamo”) e l’amore indecifrabile ma sincero (“Tu parlavi una lingua meravigliosa”);

HO CAMBIATO LA FACCIA DI UN DIO

Per non parlare della profetica “Ho cambiato la faccia di un dio” che non a caso sarà pubblicata in “Cambio” (1990) con un titolo che nel dopo muro di Berlino suonava come uno schiaffo in piena faccia. Il titolo era “Comunista”. Per concludere citerei “Ulisse coperto di sale”, forse la canzone di Lucio che personalmente amo di più. Un pezzo maestoso e orchestrale, incentrata sulla voglia di fermarsi e sull’ impossibilità di farlo anche quando sembra di essere arrivati a casa ( “…ma misi me per l’alto mare aperto” diceva nell’ Odissea descrivendo un Ulisse pronto a ripartire di nuovo).

Nel 1992 Dalla (che dichiarò qualche anno dopo che queste canzoni erano belle ma non avevano pubblico) curando l’uscita di una raccolta di quei pezzi, disse che ogni canzone di questa trilogia era “un modo per infilare un piccolo coltello nella schiena del mondo”. E’ vero, verissimo. Ma forse più che un coltello era una siringa che iniettava qualcosa di indelebile, un medicinale per l’anima ad effetto lentissimo, una droga salutare che personalmente consiglio a tutti di provare.

— Onda Musicale

Tags: Lucio Dalla, Paul McCartney
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