In primo pianoMusica

Hot Rats: un film per le vostre orecchie, diretto da Frank Zappa

Frank Zappa
È stato definito geniale, anarchico, folle, egocentrico, irriverente, ma le prime parole che mi vengono in mente, quando si parla di Frank Zappa, sono sempre quelle di Pierre Boulez che con lui collaborò nell’album live del 1984 Boulez conducts Zappa: The perfect stranger.  

Arriverà il tempo, e per Frank Zappa sarà riconosciuto il giusto merito, ossia quello di essere stato uno dei più grandi compositori del ‘900”. (Pierre Boulez)

Troppo facile pensare che Boulez si riferisse solo al versante classico di Zappa, che raggiungerà esiti entusiasmanti con The yellow shark, per esempio. Il desiderio di sentire, di comporre, la propria musica in forma orchestrale è sempre stato molto forte in Zappa. E le sue innumerevoli trasformazioni testimoniano soprattutto il desiderio dell’artista di non fermarsi mai, di non essere vittima né del “sistema”, né tanto meno di sé stesso o dei propri successi.

Quando il 10 ottobre del 1969 viene pubblicato, negli Stati Uniti, il primo disco solista di Frank Zappa, abbandonata da poco la Mothers of Invention, la band, che potremmo definire dadaista, creata da Zappa stesso nel 1965, che lo aveva aiutato a tradurre in musica il genio esplosivo e l’ironia del primo periodo, fu un vero e proprio shock per i suoi fans. In effetti negli Stati Uniti non fu un album bene accolto, tanto meno commercialmente. Andò meglio in Europa, in Olanda e Gran Bretagna soprattutto.

Inesauribile. Un aggettivo che potrebbe valere sia per Frank Zappa stesso, sia per l’album che a distanza di cinquantadue anni non finisce ancora di incantarci e tenerci incollati all’ascolto di ogni brano, di ogni frase, di ogni più piccolo suono che aspetta solo di poter essere ascoltato da un orecchio attento.

Costruito solidamente attorno ad un nucleo rock, se si vuole ruvido e aggressivo, vi innesta il complesso stile compositivo del jazz fatto di precisione, tecnica e improvvisazione. Ma per far questo, per raggiungere l’obiettivo, se mai ne fosse davvero consapevole, non poteva che avvalersi di musicisti di livello assoluto. Gli Hot Rats, appunto, costituiti da Captain Beefheart, i violinisti Jean-Luc Ponty e Don “Sugar Cane” Harris, una imponente sezione ritmica con Shuggy Otis al basso, ma soprattutto Ian Underwood, saxofonista, tastierista, multistrumentista, già parte dei Mothers of Inventions, forse vero alter ego di Zappa, almeno in questo album nel quale per la prima volta verrà adoperato, in sala di registrazione, un prototipo artigianale di registratore a sedici piste.

Potrebbe sembrare un particolare trascurabile, ma sono proprio le sovraincisioni, spesso ad opera del solo Underwood, a dare all’album l’atmosfera lussureggiante che vive degli intrecci di chitarre, tastiere e fiati che sembrano inseguirsi, abbracciarsi e separarsi quasi conquistati da una grazia segreta e magica. Un amalgama denso e dinamico, che da’ agio a Zappa di dar sfoggio della sua creatività compositiva e del genio orchestrale. Melodie sghembe, rapidi cambi di ritmo, arrangiamenti eleganti, insoliti, sontuosi, assoli che ad ogni ascolto rivelano qualcosa di inedito. Queste sono solo parole che cercano di illuminare, incuriosire o semplicemente ricordare.

L’album, quasi interamente strumentale a parte la seconda traccia, si apre con uno dei brani più classici di Frank Zappa, Peaches in regalia, un vero tripudio per le orecchie, grandioso e giocoso al tempo stesso, beneficia delle sedici tracce del registratore che a dispetto dei soli quattro musicisti impegnati a costruire questo breve gioiello sembra essere suonato da una moltitudine di strumentisti. Zappa suona un Octave bass, Ron Selico siede alla batteria, Shuggy Otis al basso e Underwood a disegnare la melodia sovra incidendo strato dopo strato i fiati e il pianoforte. Il suono si fa leggero e affascinate, dominato da un vago sapore malinconico e al tempo stesso spumeggiante, respira di arrangiamenti tanto raffinati e complessi da far pensare a Bacharach. 

La seconda traccia Willie the pimp, è la sola cantata, e se il brano precedente poteva far pensare a un geniale, elegante album di jazz orchestrale, qui tutto viene sgretolato in poche battute, in pochi riff di violino di Sugarcane Harris al quale segue Frank Zappa stesso che prima dell’ingresso di Captain Beefheart e del suo cantato ruvido, costruisce un muro di suono con la sua chitarra distorta. Willie il pappone, canta Beefheart, racconta dei suoi pantaloni color cachi, delle sue scarpe nere e lucide, della sua signorina che batte per la strada e racconta a tutti di essere la migliore. Canta, almeno fino a quando non è la chitarra di Zappa a prendere il sopravvento, a concedersi un tempo considerevole, dei nove minuti che compongono la traccia, con un assolo imponente. Davvero un inedito per un album di Zappa o Mothers of invention che sia.

Son of Mr. Green Genes, la terza traccia, torna ad una forma più strutturata. Il poliedrico Ian Underwood fatto tesoro delle idee più radicali e più brillanti di Zappa le arricchisce. Zappa stesso è una parte della costruzione, non il centro, il che consente alla sua chitarra di muovere con misura ed eleganza, grazie anche al basso fluente di Max Bennett. Insomma, un brano decisamente più pensato, ma non meno emozionante, del precedente.

Little umbrellas è un pezzo jazz denso e eccitante, straniante per l’effetto a tratti macabro disegnato dai fiati dissonanti di Underwood, tra i quali fa capolino anche il flauto che si insinua per poi dissolversi con leggerezza sinistra.

The Gumbo Variations, un lungo brano strumentale di sedici minuti che custodisce forse l’anima più torbida e densa di tutto l’album, viene inizialmente definito dal basso di Bennett e da Ian Underwood al sax che sembra voler far trovare allo strumento suoni inediti. Ennesima dimostrazione di maestria da parte di Underwood che trova sponda nella ritmica ordita dallo stesso Zappa, per lasciare poi spazio e tempo all’incontenibile, sfrenato assolo di violino di Sugarcane Harris ed al jazz più sperimentale e ruvido che esplode in una fantasmagoria di suoni davvero inarrestabile.

Dopo tanta enfasi, dopo questa orgia di suoni, ci pensa It must be a Camel a chiudere in maniera, almeno apparentemente, più distesa. Si ritrae il fragore del brano precedente e il procedere corale di sax e piano, il sapiente e calibrato suono d’assieme, lascia spazio a Zappa, al suo assolo che guizza ancora, proprio quando tutto sembra pacificato, in improvvise detonazioni elettriche.

Personaggio scomodo, lontano dalle logiche commerciali, irriverente, dicevamo, ma moralmente integro, musicista poliedrico, inclassificabile, geniale compositore. Potremmo andare avanti così cercando di definirlo per pagine, ed ogni volta ci sfuggirebbe dalle mani. Ma qualcosa rimane. Soprattutto dalle note e suoni di questo album sembra emergere prepotentemente, qualcosa che è nel suonare, nel giocare, e nel piacere di farlo senza alcun limite alla gioia del fare musica. Qualcosa che risuonerà ancora in The yellow shark, sia nel CD, sia in un concerto facilmente reperibile in rete, tenutosi a Francoforte il 17 settembre 1992, pochi mesi prima della sua morte, e suonato dagli Ensemble Modern, nel quale un provatissimo Frank Zappa ha ancora la voglia di dirigere, a suo modo, almeno l’Overture di un altro capolavoro di cui prima o poi bisognerà tornare a raccontare.

Nel 2019, per chi avesse voglia, tempo e anche soldi, di approfondire il discorso attorno a Hot Rats, è stato pubblicato un box set celebrativo dei cinquant’anni dalla pubblicazione, contenente sei CD, The Hot Rats Sessions, che sviscerano ogni brano, grazie anche al ricco libretto in dotazione, dando la possibilità di ascoltare versioni alternative e numerosi outtakes. Più di sette ore di musica, più o meno tutto quello che Zappa e la sua band hanno suonato nel corso della registrazione dell’album. Il box set, che ripete la copertina originale con Miss Christine delle GTO che cerca di uscire, o forse vi sta definitivamente cadendo, da una piscina, include perfino un gioco dell’oca.

Rimane un dubbio, una domanda, succede sempre con Frank Zappa, cosa altro si possa ascoltare dopo un suo album, ma forse è il caso di lasciare parlare Zappa stesso e ricordarlo con un ultimo guizzo della sua ironia e irriverenza.

Gli articoli dei giornalisti di musica rock sono scritti da gente che non sa scrivere, che intervista gente che non sa parlare, per gente che non sa leggere”.

(articolo di Massimo Turtulici)

— Onda Musicale

Tags: Frank Zappa
Sponsorizzato
Leggi anche
Addio Franco Cerri, chitarrista jazz apprezzato in tutto il mondo
Phil Collins e la sua passione per la battaglia di Alamo al centro di una diatriba storica