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The Smiths e “The Queen is Dead”, uno dei capolavori degli anni ’80

Gli Smiths nel 1986

In un decennio essenzialmente di riflusso per il rock, gli anni ’80, una delle stelle indiscusse è quella degli Smiths. Una stella che continua a brillare a oltre trent’anni dallo scioglimento, così come quella dell’istrionico Morrissey.

Gli Smiths nascono nel 1982, essenzialmente dall’incontro tra John Meher e Steven Patrick Morrissey. Il primo, che cambia presto il nome in Johnny Marr per evitare equivoci con l’omonimo batterista dei Buzzcocks, è un chitarrista e giornalista musicale. Steven Patrick è invece figlio di immigrati irlandesi e grande cultore della letteratura inglese.

Il teatro dell’incontro è Manchester, città operaia che ha già dato i natali ai Buzzcocks e ai Joy Division. Morrissey è affascinato in special modo da Oscar Wilde, ma anche da Shelagh Delaney ed Elizabeth Smart; a livello musicale, il cantante è un fervido ammiratore dei Girls-group di Phil Spector, del glam e del pop anni ’60.

Johnny Marr è fin da ragazzino ossessionato dalla chitarra. Sviluppa la capacità di assimilare qualsiasi stile, dal blues a quello del prediletto Keith Richards, fino al folk di Bert Jansch. Ma l’influsso forse fondamentale per gli Smiths è il jingle-jangle dei Byrds, che Marr ripropone nei suoi proverbiali arpeggi e riff.

I due vengono presentati da un amico comune e fanno subito comunella; di lì a poco nascono gli Smiths. Il moniker viene fuori grazie alla sottile verve polemica di Morrissey, in contrapposizione a realtà più pompose e pretenziose come Duran Duran e Spandau Ballet. Smiths è infatti uno dei più diffusi cognomi britannici, e il nome suonerebbe da noi pressappoco come Bianchi o Rossi.

A livello musicale gli Smiths non sono certo un gruppo d’avanguardia; il suono è essenzialmente quello del pop dei loro tempi e la voce di Morrissey, a tratti quasi tenorile, è educata e intonata. Quello che li distingue è l’incredibile raffinatezza del tutto, il timbro riconoscibilissimo di Morrissey e soprattutto i testi. Steven Patrick è un abile scrittore prestato alla musica; le sue liriche sono perfette, ironiche e polemiche verso la compassata società inglese.

I bersagli preferiti dell’affilatissima penna di Morrissey sono in particolar modo Margareth Thatcher, la Lady di Ferro conservatrice all’epoca al governo, e la monarchia. In ultima analisi, però, il cantante e autore è un raffinato fustigatore dei costumi di tutta la società inglese e forse umana in generale.

Dopo una manciata di concerti, con l’aggiunta di Andy Rourke al basso e di Mike Joyce alla batteria, gli Smiths ricevono una serie di offerte. Scelgono la Rough Trade e debuttano subito con un album che porta il loro nome. Il lavoro esce nel 1984 ed è subito un successo da secondo post in Hit Parade, oltre a contenere già alcuni capolavori.

Nel 1985 esce il seguito, Meat is Murder, già dal titolo dichiaratamente a favore dello stile di vita vegetariano, un’altra delle fissazioni di Morrissey. Il disco schizza addirittura al primo posto delle classifiche, anche se forse è leggermente al di sotto del debutto. Le polemiche di Morrissey non fanno sconti a nessuno, dalla politica alla Famiglia Reale, fino al mondo dell’istruzione scolastica.

Arriva il 1986 e il capolavoro è nell’aria.
Come sempre capita, però, al successo non si abbinano solo rose e fiori; Rourke e Joyce, outsider del gruppo, protestano per la ripartizione dei compensi, e lo stesso fa Morrissey con la Rough Trade. I manager della band vengono licenziati e sostituiti con velocità sorprendente e preoccupante. Le polemiche di Morrissey, inoltre, sono sempre più pesanti e scioccanti per i benpensanti.

L’autore prende di mira la Famiglia Reale: “L’ho sempre disprezzata. È un nonsense fiabesco, l’idea stessa della loro esistenza in giorni come questi, durante i quali la gente muore quotidianamente perché non ha abbastanza denaro per pagarsi il riscaldamento, secondo me è immorale.”

Poi se la prende con Bob Geldof  e l’iniziativa benefica Band Aid: “Non ho paura a dire che penso che la Band Aid è stata diabolica. O di dire che penso che Bob Geldof sia un personaggio nauseante. Molte persone lo ritengono molto inquietante e io lo dirò forte come qualcuno forse si aspetta da me. Il disco era veramente terribile, considerando anche la massa di talenti coinvolti. Persone come la Thatcher e la famiglia reale potrebbero risolvere il problema etiope in dieci secondi. Ma la Band Aid ha evitato di dire questo, rivolgendosi invece ai disoccupati.”

Lo stesso disco del 1986 alla fine si intitola The Queen is Dead, con chiaro riferimento alla monarchia; ma avrebbe dovuto inizialmente intitolarsi Margaret On The Guillotine, staffilata rivolta alla solita Lady di Ferro. L’album svetta su tutta la produzione non tanto a livello musicale, pur contenendo i loro più grandi capolavori, quanto per essere la summa definitiva del sound degli Smiths.

Alla produzione si cimenta la stessa band, vogliosa di un suono che aderisca perfettamente ai loro desideri, coadiuvata dal solo Stephen Street, fidato quinto membro del complesso. In copertina campeggia una foto di Alain Delon, tratta da Il Ribelle di Algeri, noir del 1965, sormontata da nome e titolo scritti in rosa acceso. L’effetto è quello di un tono decadente, che sarà accentuato dai brani di questo autentico gioiello.

Il disco si apre con la title track, e inizia con un campionamento; si tratta di Take Me Back To Dear Old Blighty, una vecchia canzone dell’esercito inglese, carpita dal film La stanza a forma di L. Il titolo del brano e dell’album prende invece spunto da un racconto di Hubert Selby. Le musiche, più varie e dure del solito, sono di Johnny Marr, che porta a compimento una canzone iniziata quand’era adolescente.

Il testo è l’ennesima invettiva di Morrissey contro la monarchia e la Famiglia Reale, ritenuta un vero e insensato affronto a democrazia e tempi moderni. Il pezzo, insolitamente lungo per gli standard degli Smiths, apre il lavoro con vigore, pur non risultando tra i loro esiti migliori.

Il brano seguente è Frankly, Mr. Shankly, dall’andamento quasi di datato stomp.
Il testo è ritenuto unanimemente un’invettiva contro Geoff Travis, proprietario della Rough Trade. Dietro la maschera fittizia di Mr. Shankly si cela quindi Travis, a cui Morrissey imputa di non ripartire giustamente i guadagni, oltre che di essere un terribile poeta dilettante. All’epoca è lo stesso Travis a prenderla bene, attribuendo il testo alla celebre ironia dell’autore, e ritenendo la ribellione tipica del sistema rock’n’roll; e – cosa più importante – continuando a intascare lauti guadagni grazie agli Smiths.

Dalle atmosfere quasi scherzose del brano, si passa a I Know It’s Over, forse la ballata più bella e malinconica mai incisa dal complesso. Musicalmente la canzone riprende certi stilemi del pop anni ’60, ancora dalle parti di Phil Spector, con la strumentazione che va via via strutturandosi, dall’iniziale chitarra acustica. Il testo narra della disperazione dell’autore per un amore finito, o forse mai nato, oggetto quasi di dileggio dell’ex amante.

Una certa ansia di morte e suicidio permea tutte le stupende liriche del brano, che non sfigura accanto ai classici della letteratura; la voce di Morrissey, poi, è davvero superba. Il cantante lavora in modo espressivo sui registri più bassi, trascinando l’ascoltatore nell’abisso più profondo come mai era successo fino ad allora. All’epoca la band si costruisce una sinistra fama di complesso istigatore all’autolesionismo, ma la realtà è che mai nessun altro gruppo saprà ferire e lenire allo stesso tempo come quello di Morrissey e soci.

Never Had No One Ever prosegue nella stessa vena malinconica del pezzo precedente, primo climax del disco. Il brano parla dell’estraneità che Morrissey ha sempre provato anche tra le strade dove è nato. Una sorta di alienazione, dovuta alle sue origini irlandesi, certo, ma anche alla storia familiare e alla sua particolare sensibilità. Musicalmente siamo ancora nell’ambito della ballata lenta, con una serie di preziosismi a livello di arrangiamento. Una gemma che rischia di perdersi tra i tanti capolavori del disco.

Cemetry Gates riporta il sole, almeno a livello musicale, con una melodia svelta e ingannevolmente allegra. Ma la malinconia non può mancare, nelle atmosfere di Morrissey, e così ecco il testo portarci metaforicamente a spasso in una giornata di sole in una sorta di cimitero monumentale. Tra Keats, Yeats e citazioni varie, Morrissey si toglie l’ennesimo sassolino dalla scarpa, rivolgendosi a chi lo accusa di ispirarsi troppo spesso alle parole di Oscar Wilde. E sono proprio del geniale scrittore le parole che Morrissey vuole incise sul vinile del singolo: “Il talento prende in prestito, il genio ruba”.

La successiva Bigmouth Strikes Again si apre con una chitarra acustica suonata in modo sostenuto e un ritmo piuttosto veloce. Il jingle-jangle di Marr è quanto mai efficace e Morrissey si diverte a utilizzare un effetto che alza la tonalità della sua voce, così da doppiare le linee melodiche. Il testo è ancora autobiografico, come accade spesso per l’egocentrico autore; stavolta Morrissey si paragona a una sorta di Giovanna D’Arco che parla troppo, andando incontro al rogo.

The Boy With the Thorn in his Side è ancora un grande classico degli Smiths, con un prezioso lavoro alle chitarre di Johnny Marr. Il testo è – nelle parole di Morrissey – una metafora del gruppo rispetto all’industria discografica, da cui l’autore si sente sfruttato e rifiutato allo stesso tempo.

Si passa alla spassosa Vicar in a Tutu, dal ritmo quasi rockabilly. Il testo narra di un operaio che – mentre lavora sul tetto di una chiesa – assiste alla curiosa scena di un prete in tutù che balla tra i fedeli dopo la predica, ottenendo grande successo. Morrissey non fa mistero su come la pensi rispetto alle istituzioni religiose, e il brano presenta un godibile e dissacrante quadretto surreale. Un piccolo gioiello a livello sia musicale che di provocazione letteraria.

L’album si avvia alla chiusura e gli Smiths piazzano quello che forse è il capolavoro che vale un’intera carriera, There i sa Light That Never Goes Out. Su una base musicale quasi allegra, col basso in evidenza quasi fosse dicomusic, il testo narra della disperazione e della solitudine di due giovani. Il parallelo tra amore e morte è palese, tanto da portare la voce narrante a desiderare di finire sotto un autobus a due piani per morire assieme all’amato.

Marr ruba una sequenza a Hitch Hike di Marvin Gaye, dichiarando di averlo fatto per gioco. Al netto di qualsiasi considerazione, il brano rimane un capolavoro insuperabile degli anni ’80 e forse di tutta la storia del pop.

The Queen is Dead si conclude con la bella Some Girls Are Bigger Than Others. Il brano presenta una curiosa riflessione di Morrissey sulla sua indifferenza verso l’altro sesso, al punto di non essersi mai reso conto in ventisei anni di come le ragazze fossero diverse tra loro.

A questo punto il disco si chiude, un lavoro che lancia definitivamente gli Smiths sia a livello di successo commerciale che di critica. L’anno dopo, ancora sulla buona onda, il complesso darà alle stampe Strangeways, Here We Come, ma nessuno immagina che sarà il loro ultimo disco. Tra tensioni sempre più laceranti, sia interne che col mondo discografico, gli Smits si sciolgono poco dopo.

Morrissey, fedele alla sua immagine di istrionico dandy egocentrico, rimarrà sempre in cima alle classifiche anche da solista. Una seconda vita che offrirà ancora grandi capolavori e – di pari passo – prese di posizione sempre più discutibili.
Una seconda vita che somiglia molto alla prima.

— Onda Musicale

Tags: Keith Richards, Bob Geldof, Marvin Gaye, Joy Division
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